Statali di nuovo in ufficio, ma serve finalmente una riforma per la qualità

La decisione del governo di mettere fine alla possibilità, per la stragrande maggioranza dei pubblici dipendenti, di lavorare da casa (smart working nel vezzo, ormai usuale, di usare termini inglesi) ha fatto notizia. Media tradizionali e social si sono tuffarti sulla questione, certi di trovare terreno fertile per riproporre l’immagine dell’impiegato pubblico propenso prevalentemente a lavorare il meno possibile. Del resto, non poteva essere altrimenti, perché il luogo comune del burocrati mezzemaniche ha radici antiche e ben solide perfino nella letteratura: Monsù Travet era l’emblema del pubblico dipendente già all’epoca del Regno d’Italia. E tale è rimasto nell’immaginario collettivo di molti cittadini. In particolare di coloro che lavorano in proprio o nel settore privato.

Come in tutti i luoghi comuni tale raffigurazione contiene del vero e, insieme, dell’esagerazione. In questo momento la discussione si accende sulla circostanza che – a causa della pandemia – ad una parte consistente dei lavoratori pubblici è stato chiesto di svolgere l’attività d’ufficio da casa. Ovviamente, tale misura era dettata dall’obiettivo di contribuire alla lotta contro la diffusione del Covid. Come, complessivamente, tale scelta abbia influito sulla qualità dei servizi offerti ai cittadini e sull’efficacia del lavoro svolto da «remoto» è difficile dire. Forse tra qualche tempo ricerche sociologiche riusciranno a far luce su tale aspetto. Ma la vera questione è un’altra: serve lo smart working nella pubblica amministrazione? Pensare che ciò costituisca un regalo fatto ai dipendenti dello Stato e delle altre organizzazioni pubbliche è irragionevole. Si tratta, al dunque, di capire come riuscire a rendere il lavoro da remoto un elemento di produttività e di utilità e non un salvacondotto per stare con le mani in mano.

Lavorare utilizzando le possibilità offerte dalla diffusione di internet non può che giovare sia a rendere più veloce e «agile» l’attività degli uffici, sia a semplificare - in particolare nelle grandi città - la vita degli impiegati. Occorre, però, tener conto di alcuni fattori preliminari. In primo luogo, l’urgente necessità di modificare, alleggerendola, la struttura organizzativa degli uffici pubblici; ma, soprattutto, provvedendo ad un’adeguata copertura della rete telematica in tutte le zone (anche le più remote) del Paese. Per arrivare a rendere effettivi tali obiettivi, occorre tempo. Una variabile che è stata quasi sempre assente negli innumerevoli tentativi di rendere più efficace l’azione dei poteri pubblici. La «riforma dell’amministrazione» è diventata il simbolo della retorica politica e dell’incapacità dei governi di passare dalle parole ai fatti, dalle promesse ai risultati. Circa vent’anni fa l’allora ministro per la Funzione pubblica annunciò che entro due anni dagli uffici pubblici sarebbe scomparsa la carta. Era una chimera che non si avverò, perché non ve ne erano le condizioni. Molto più saggiamente nel 1979 il ministro Massimo Severo Giannini – nel presentare il suo Rapporto sui principali problemi della amministrazione dello Stato – aveva affermato che sarebbero occorsi cinque anni di lavoro diuturno e tenace per cambiare la qualità delle prestazioni del settore pubblico.

A margine della decisione sullo smart working vi è stata la nomina della professoressa Paola Severino a presidente della Scuola nazionale dell’amministrazione, che dovrebbe essere la fucina della formazione dei dirigenti dello Stato. È un’ottima notizia, perché criteri adeguati di selezione e formazione possono incidere favorevolmente sull’operato delle organizzazioni pubbliche.

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