Stato efficiente
per le emergenze

Nella battaglia in corso per debellare il coronavirus il fulcro «tecnico» è, naturalmente, la sanità. Tanto pubblica quanto privata, in entrambe le quali possiamo vantare eccellenze di livello mondiale. Non a caso, un gruppo di ricercatrici italiane è stato tra i primi a isolare il virus. Tecnicamente il nostro sistema sanitario è in grado di fronteggiare la difficile situazione. Naturalmente, esso – in quanto apparato tecnico – deve essere affiancato da altri soggetti in grado di garantire un’operatività adeguata all’azione di supporto alle popolazioni. Sotto questo profilo la designazione immediata di un «commissario» per la gestione dell’emergenza è stata opportuna. Con una scelta, peraltro, ineccepibile, poiché il compito è stato affidato a una persona di provata esperienza, che ha alle spalle la poderosa macchina organizzativa della Protezione civile.

E, di fianco, il lavoro preziosissimo di controllo garantito dalle forze dell’ordine (Carabinieri, Polizia di Stato, Guardia di Finanza). In tal modo si è ottenuta, sul piano operativo, una saldatura fra le tre facce del problema: la cura e il monitoraggio delle persone colpite dal morbo o sospettate di averlo; il controllo sul territorio finalizzato a garantire che le necessarie misure di ordine pubblico (per motivi sanitari) venissero osservate; la collaborazione delle Protezione civile e delle organizzazioni di volontariato.

Saldatura e ricomposizione di tre funzioni cardine delle società contemporanee: la tutela della salute dei cittadini, la sicurezza pubblica, la partecipazione delle forze sociali e dei singoli cittadini. Tre aspetti che concretizzano i «diritti di libertà». Uno scenario che ripropone ciclicamente l’intreccio, sempre nuovo ma sempre erede del passato, delle funzioni degli Stati. Le attività di sanità – pur mantenendo la loro totale autonomia sul piano tecnico/scientifico – si riaccostano alla funzione «d’ordine» tipica degli Stati liberali: la sicurezza pubblica. Accostamento che si può far risalire all’epoca nella quale, ancora fino alla prima metà del Novecento, la sanità era giuridicamente considerata una funzione di «polizia preventiva», poiché si partiva dalla convinzione che fosse suo compito anche quello di difendere la collettività dalle epidemie. Uno scenario antico che gli avvenimenti di queste settimane hanno riportato potentemente alla ribalta. Ed, insieme a ciò, hanno messo in rilievo come il problema delle emergenze - quali che siano – propongano ogni volta la medesima questione: il bisogno di uno Stato efficiente, vicino alle esigenze dei cittadini, attento ai loro diritti nel rispetto delle libertà di ciascuno e, nel contempo, dell’interesse generale.

Le scelte compiute dall’inizio dell’esplosione dell’epidemia in Cina e della sua progressiva espansione fuori da quei confini sono state oggetto di critiche, perché sono sembrate mostrare - nel tempo e nelle diverse parti del Paese - oscillazioni non facili da comprendere. Il governo è apparso a volte timido nell’azione di coordinamento, che l’ordinamento gli riserva, rispetto alle istituzioni regionali e locali. Tale atteggiamento trova una sua (parziale) giustificazione nel fatto che le Regioni rivendicano - in forza della sciagurata riforma costituzionale del 2001 - un’autonomia che va ben oltre il ragionevole. Il soverchio attivismo regionale, contrassegnato da una babele di provvedimenti difformi tra l’una regione e l’altra, ha creato una pericolosa disomogeneità degli interventi. Se a ciò si aggiungono le decisioni di molti sindaci, anch’esse prese senza coordinamento, vengono al pettine le pecche del nostro modello istituzionale. Si è fatta strada un’idea di «federalismo» che non soltanto non è vigente, ma che ogni volta mette in luce la sua impraticabilità. Un sistema che voglia dislocare e distribuire sul territorio le sue funzioni ha ragion d’essere soltanto se allo Stato centrale resta la potestà effettiva di coordinare, regolare, controllare. Altrimenti non ci sarà autonomia ma soltanto caos.

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