Stellantis, quei ricatti da rinviare al mittente

ECONOMIA. Lo Stato italiano, dopo anni di tentativi infruttuosi, fatica ancora oggi a vendere definitivamente Ita, cioè quel che rimane dell’ex compagnia di bandiera Alitalia. Sempre lo Stato italiano, oggi azionista di minoranza dell’acciaieria ex Ilva, rischia di dover sborsare nuovi soldi pubblici per rimediare alla condotta dell’azionista privato ArcelorMittal.

Visti questi (e molti altri) precedenti, davvero oggi lo Stato italiano potrebbe entrare a cuor leggero nell’azionariato di un’azienda privata e mettersi a produrre automobili? Davvero sarebbe questa la soluzione per risollevare Stellantis, l’azienda automobilistica nata nel 2021 dalla fusione dell’italoamericana Fiat Chrysler Automobiles e della francese PSA, i cui impianti nella Penisola procedono a rilento? Domanda retorica, e non soltanto perché se Roma oggi volesse acquisire una quota pari al 6,1% - uguale a quella che lo Stato francese detiene attraverso Bpi, l’equivalente della nostra Cassa Depositi e Prestiti – dovrebbe pagare ben 4,1 miliardi di euro ai valori di Borsa attuali.

Ma da dove salta fuori questa ipotesi, quantomeno imprudente, dello Stato italiano come novello Henry Ford? All’origine di tutto ci sono le parole di giovedì scorso di Carlos Tavares, il Ceo di Stellantis, che rispondendo ad alcune critiche dell’esecutivo sull’andamento dell’azienda nel nostro Paese aveva detto: «Si tratta di un capro espiatorio nel tentativo di evitare di assumersi la responsabilità per il fatto che se non si danno sussidi per l’acquisto di veicoli elettrici, si mettono a rischio gli impianti in Italia». Avete letto bene: se un’azienda privata non vende abbastanza vetture elettriche, secondo Tavares, è colpa dello Stato che non ne sussidia ancora più generosamente l’acquisto da parte dei consumatori. Da qui la risposta del ministro per le Imprese, Adolfo Urso: «Se Tavares o altri ritengono che l’Italia debba fare come la Francia, che recentemente ha aumentato il proprio capitale sociale all’interno dell’azionariato di Stellantis, ce lo chiedano». Una frase comprensibilmente puntuta e polemica, forse anche un po’ ironica. Che è stata sufficiente però a risvegliare le fantasie dirigiste di alcuni partiti e sindacati italiani. Il punto, invece, è che un’iniezione di qualche miliardo di euro nel capitale di Stellantis farebbe l’interesse dell’azienda franco-italiana nel brevissimo periodo, ma non risolverebbe i problemi dell’industria metalmeccanica nazionale e soprattutto delle sue decine di migliaia di lavoratori.

I toni ricattatori della dirigenza di Stellantis – della serie: o l’Italia ci dà più soldi pubblici per acquistare le nostre vetture oppure saranno guai per i lavoratori locali – vanno respinti al mittente. E la convocazione di «un tavolo» con Tavares e soci sarebbe soltanto un déjà-vu. Per salvaguardare il futuro degli stabilimenti del gruppo, così come le aziende dell’indotto e le decine di migliaia di lavoratori che dipendono da tutto il comparto, è necessaria una strategia di più ampio respiro. Il Governo ha cominciato a muoversi in questa direzione, innanzitutto a livello europeo, tentando di mitigare certi eccessi dirigistici giustificati da Bruxelles con l’obiettivo della transizione ecologica. Vanno in tal senso la battaglia italiana per rendere meno vincolanti gli standard Euro7 e quella per la «neutralità tecnologica» in materia di alimentazione dei motori. Tuttavia il ritardo accumulato dai precedenti esecutivi su tale fronte è estremo. Nel frattempo, per motivi diversi, la concorrenza americana e quella cinese si sono rafforzate in maniera incredibile, specie nella produzione di auto elettriche. Nel breve periodo una qualche forma di protezionismo su scala europea, almeno al livello di quello che la Cina riserva ai nostri prodotti, potrebbe aiutarci a guadagnare tempo. Per fare cosa? Per insistere sulla ricerca e sullo sviluppo tecnologico, per accrescere la produttività dei nostri impianti (modello Marchionne), per diventare – dal punto di vista regolatorio e fiscale - un Paese ospitale e attrattivo per altre imprese del comparto automotive che volessero insediarsi qui. Invece di auto «made in France» o «made in China» a basso costo, magari da acquistare a suon di incentivi statali, potremmo sperare così di avere in Italia nuovi centri di ricerca o catene di montaggio di aziende americane o asiatiche, ulteriore know-how e maggiori occasioni di lavoro.

© RIPRODUZIONE RISERVATA