Transizione verde, la possibile via europea

EUROPA. La Cina è il Paese con la maggiore capacità al mondo di processare «minerali critici» indispensabili per la transizione verde delle nostre economie, controlla quasi la totalità della filiera industriale dell’energia fotovoltaica, allo stesso tempo ha un ruolo da protagonista nella fornitura di batterie elettriche e di componenti cruciali per le turbine eoliche esportate in enormi quantità in Europa.

Abituati come siamo a ragionare con i canoni dell’economia di mercato, rischiamo di sorvolare su alcune importanti implicazioni geopolitiche e di sicurezza che discendono da una situazione simile.

Innanzitutto, se Pechino oggi è così avanti rispetto a noi nel settore del «clean-tech» non lo si deve (sol)tanto ai risultati di una competizione virtuosa di ricercatori e imprenditori a livello planetario, ma in larga misura a una scelta di politica industriale pubblica, rafforzata a partire dal 2012 con l’ascesa al potere di Xi Jinping: secondo il pensatoio statunitense Csis, la Repubblica popolare è stata molto più attenta dell’Occidente a promuovere «uno sviluppo lungo l’intera catena del valore» dell’energia green, dalle miniere alle università e dalla raffinazione delle materie prime alle tecnologie d’avanguardia.

La leadership comunista cinese, avendo dunque scommesso da tempo su questa sua primazia, ne è a maggior ragione ben consapevole oggi. Non solo, adesso appare disposta a sfruttare un simile status come leva negoziale nella competizione internazionale. Lo scorso luglio, infatti, Pechino ha imposto restrizioni all’export di gallio e germanio, due metalli fino ad allora ignoti ai più ma cruciali per i microchip. E di recente, in cui comprensibilmente altre tensioni geopolitiche attirano l’attenzione dei media mondiali, il Dragone ha annunciato un’ulteriore stretta – dal 1° dicembre - sulla grafite «made in China» che serve tra l’altro per costruire gli anodi delle batterie elettriche.

Che fare, dunque? Per alcuni politici e analisti occidentali, assolutamente nulla. Nel settore green, infatti, i legami commerciali e industriali tra il nostro continente e la Cina sono ormai così stretti che sarebbe irrealistico tentare di modificarli. Dietro tale atteggiamento ci sono comprensibili interessi economici (al «made in China» sono associati costi minori, per esempio), e ingiustificati eccessi ideologici (visto che qualsiasi cambiamento dei rapporti Ue-Cina imporrebbe una rimodulazione temporale della transizione).

Secondo una diversa scuola di pensiero, le restrizioni all’export di minerali decise dalla Cina costituiscono segnali da non sottovalutare. D’altronde stiamo ancora pagando il conto salatissimo di un’altra forma di dipendenza energetica, quella dal gas russo, che all’improvviso è stata utilizzata come un’arma contro di noi. Non possiamo permetterci un bis, è il (giusto) ragionamento. Così, soprattutto negli Stati Uniti, non mancano i fautori di un disaccoppiamento totale, o «decoupling», della filiera industriale green occidentale da quella cinese. Un obiettivo da raggiungere a costo di sostenere generosamente le produzioni industriali domestiche e a costo di tornare a investire in ambiti che ritenevamo superati o ambientalmente dannosi come l’estrazione e la raffinazione di materie prime. Con un approccio più gradualistico, c’è chi preferisce parlare di «derisking», come avvenuto lo scorso maggio in occasione del G7 di Hiroshima in Giappone: l’Occidente, in altre parole, se proprio non può fare a meno di tecnologie e produzioni cinesi, cominci almeno con il ridurre la propria esposizione verso Pechino. In questa direzione, secondo la Commissione europea, vanno provvedimenti come il Critical Raw Materials Act e il Net Zero Industry Act. Tuttavia perfino alcuni think tank europeisti, come il Bruegel Institute, sono scettici sulle strategie e sulle forme di finanziamento decise a Bruxelles. Da qui la proposta, per esempio, di una «green tech partnership» che coinvolga un consistente numero di Paesi (extra Cina), al di là del solo G7, attraverso accordi ad hoc di scambio e di investimento. Sarà un percorso lungo e complicato, ma come Europa abbiamo assoluto bisogno di una strategia adeguata per far convivere i necessari obiettivi ambientali con lo sviluppo economico e la protezione sociale a cui non possiamo rinunciare.

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