Un precario equilibrio
politico salva Conte

Per chi ancora non avesse capito a quale autunno stiamo andando incontro, è suonata la campana dell’Istat a dirci che il Pil crollerà di quasi nove punti e che l’anno prossimo potrebbe esserci una ripresa solo della metà di quanto abbiamo perduto. E, considerando che l’Italia ancora non era riuscita,
prima della pandemia, a riprendersi tutto quello che aveva perso dalla crisi
del 2011 in poi, si capisce che la situazione potrebbe diventare difficilmente gestibile, soprattutto a Sud ma non solo.

I provvedimenti del governo non sono ancora arrivati a terra nonostante le rassicurazioni dei ministri e dell’Inps mentre le crisi industriali cominciano a venire avanti, a cominciare dal problema dell’ex Ilva con un rischio di caduta del settore dell’acciaio in Italia con conseguenze inimmaginabili. In tutto ciò, i soldi del recovery Fund chissà quando arriveranno (non prima della primavera 2021, forse più tardi) ma il governo non è ancora riuscito a dire in pubblico che i miliardi del Mes (Fondo Salva-Stati) bisogna sbrigarsi a prenderli prima di dover allargare ancora il debito pubblico oltre il livello astronomico del 175 per cento.

Conte lo sa benissimo che al Mes bisogna arrivare, con lui lo sa Di Maio e il Pd continua a spingere, ma la decisione non può arrivare fino a quando non si capirà come domare la rivolta della base parlamentare grillina che vedrebbe ancora smentita una linea già indefettibile e poi travolta (come sulla Tav o altro). Per paradossale che sia, questa montagna di problemi rende più stabile il Governo e il suo presidente del Consiglio. Che infatti rilascia interviste tranquillizzanti: «Non cadrò, vedrete. Tutto questo chiacchiericcio fa parte del gioco». Ma il gioco rischia di farsi davvero pesante per il partito che più degli altri sopporta il peso del governo e delle sue difficoltà, il Pd. Il quale ha dato vari segni di insofferenza verso Conte, sia per il suo presenzialismo, sia per la insufficiente efficacia dei provvedimenti, sia per la continua mediazione al ribasso che a palazzo Chigi si fa tra le varie spinte degli «alleati». Questo mette in tensione i democratici che temono di caricarsi gli effetti negativi di una crisi sociale ed economica senza invece poter cogliere – e proprio a causa del presenzialismo del presidente del Consiglio – i frutti elettorali di misure che raccolgano il consenso popolare. Insomma, se va bene, va bene a Conte; se va male, è colpa del Pd.

Che tuttavia non può staccare la spina proprio per la situazione in cui si trova il Paese che non capirebbe una crisi proprio adesso, e dunque ieri in direzione Nicola Zingaretti è stato costretto a ripetere l’esortazione perché si faccia di più e meglio, perché ci sia «una svolta» e un «nuovo modello di sviluppo»: parole che non riescono a nascondere il disagio dei democratici. Che è molto più grave di quello dei grillini i quali sanno che il loro gradimento elettorale è ormai dimezzato (e dunque andare ad elezioni sarebbe disastroso per la gran parte dei deputati e dei senatori Cinque Stelle) ma che in fondo la figura di Giuseppe Conte, e il suo gradimento popolare, può essere attribuito proprio al M5S. E dunque si va avanti così: il problema è semmai decidere chi comanda in casa, e prima o poi i due amici-rivali Di Maio e Di Battista dovranno vedersela faccia a faccia, senza rinviare ulteriormente una sfida che dura da troppo tempo. Quindi tutto gioca a favore del presidente del Consiglio: sia la difficile situazione economica che il Covid 19 ha creato, sia gli interessi dei singoli soci della maggioranza. Ai quali l’avvocato pugliese può sempre far intravedere la possibilità di fondare un partito personale che oggi è accreditato di almeno il 14% dei voti da prelevare in tutti i serbatoi: grillino, democratico, renziano e persino di centrodestra moderato.

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