Un uomo solo sfida
le tenebre sul mondo

Resterà nella memoria del nostro popolo e dell’umanità l’immagine inedita della piazza di San Pietro deserta, venerdì al tramonto di una giornata che appare come il crepuscolo di una nuova epoca, il vespro di una Chiesa che veglia sul mondo perché non si spenga l’esile fiamma della speranza. Soltanto il Papa e monsignor Marini, il maestro delle cerimonie che lo accompagna come l’ombra. E sopra i due, l’ombra di cupe nuvole che scaricano una pioggia primaverile a rendere lustri i sanpietrini in cui si specchiano le luci del colonnato del Bernini.

Un’immagine inquietante non ripresa dagli smartphone dei pellegrini e condivisa attraverso i social media, ma rilanciata sugli schermi di tutte le case dalle dirette televisive.

Quasi una proiezione di quell’immagine sul mondo, Papa Francesco evoca «fitte tenebre [che] si sono addensate sulle nostre piazze, strade e città; si sono impadronite delle nostre vite riempiendo tutto di un silenzio assordante e di un vuoto desolante, che paralizza ogni cosa al suo passaggio: si sente nell’aria, si avverte nei gesti, lo dicono gli sguardi. Ci siamo trovati impauriti e smarriti». È il venerdì della quarta settimana di Quaresima, ma siamo già al Venerdì Santo, quando le «fitte tenebre» avvolgono la terra mente Gesù muore in croce. E resta l’attesa dell’alba di Pasqua.

Il centro di gravità delle parole di Francesco cade sulla barca di Pietro, il pescatore del lago di Galilea di cui è il successore. Nel Vangelo di Marco è narrato l’episodio drammatico delle acque burrascose che sembra anticipare quello che stiamo vivendo (il Vangelo parla sempre al presente): anche noi «siamo stati presi alla sprovvista da una tempesta inaspettata e furiosa. Ci siamo resi conto di trovarci sulla stessa barca, tutti fragili e disorientati, ma nello stesso tempo importanti e necessari, tutti chiamati a remare insieme, tutti bisognosi di confortarci a vicenda. Su questa barca ci siamo tutti. Come quei discepoli, che parlano a una sola voce e nell’angoscia dicono: «Siamo perduti». Così anche noi ci siamo accorti che non possiamo andare avanti ciascuno per conto suo, ma solo insieme».

Mai come ora l’uomo si accorge di non essere un’isola in un mare di estraneità. È costretto dalla realtà, dalle circostanze che urgono travolgenti e spazzano via ogni falsa sicurezza, a far conto sugli altri. I malati con quanti sono in grado di curarli; i medici e gli infermieri con coloro che forniscono i mezzi per curare e per proteggersi; i dirigenti del sistema sanitari con chi produce farmaci, apparecchiature biomedicali e dispositivi di protezione individuale; gli industriali che fabbricano questi prodotti con i loro operai che potrebbero non arrivare in fabbrica; gli studenti con i docenti che non incontrano più in aula. Il governo centrale e regionale con i cittadini, le loro necessità e la risposta all’appello a stare a casa. Tutti – produttori e consumatori, lavoratori e studenti, cittadini e governanti – dipendiamo da chi fa arrivare il cibo sulle nostre tavole, raccoglie e smaltisce i rifiuti, ci garantisce le utenze e i trasporti, pulisce le strade.

Paradossalmente, il «distanziamento sociale» che ci è chiesto porta in primo piano la «vicinanza sociale», l’interdipendenza di cui non possiamo fare a meno, quella prossimità che non possiamo sfuggire per non restare soli con i nostri bisogni, le domande e le paure. Dobbiamo fare i conti con chi c’è e così com’è (e come siamo noi), con il nostro bene e il nostro male. Con le parole della canzone di Bennato, «non esiste una terra dove non ci sono santi né eroi. E se non ci son ladri, se non c’è mai la guerra, forse è proprio l’isola che non c’è». Se l’abbiamo sognata o desiderata (almeno qualche volta), ora è il momento di svegliarci dal sonno della coscienza individuale e civica.

Ma sulla barca di Pietro non c’erano solo lui e gli altri discepoli, atterriti e sconcertati. C’era un Altro. C’è un Altro sulla stessa barca in cui siamo noi, oggi. È Gesù, il Figlio di Dio, la compagnia di Dio all’uomo: ieri, oggi e sempre. È Lui di cui hanno avuto bisogno i discepoli per salvarsi: da soli (pur unendo le loro forze) non ce l’avrebbero fatta. E neppure noi, oggi, possiamo contare sulle sole nostre forze. Dobbiamo essere realisti e domandare l’impossibile, come scrivevano sui muri della Sorbona gli studenti francesi durante il Sessantotto. La «coesione sociale» è preziosa, ma non basta.

«Solo un dio potrà salvarci», diceva il filosofo Heidegger. Questo «dio» lo ha già fatto, attraverso la croce di Cristo. Se la Chiesa non annuncia questo, oggi, con coraggio – «sperando contro ogni speranza», come dice San Paolo – che cosa ha da dire a noi? Papa Francesco lo ha fatto, venerdì, con la voce in una piazza deserta ma gremita in tutto il mondo

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