Usa, armi intoccabili
Serve un cambio culturale

Quattro sparatorie nel mucchio in una settimana: a Gilroy in California, 3 morti; a Southaven in Mississippi, 2 morti; a El Paso in Texas, 20 morti; e a Dayton in Ohio, 9 morti. Gli americani le chiamano «mass shooting» e con quel termine intendono una cosa precisa: ovvero, una sparatoria in cui almeno quattro persone siano colpite (morte o ferite) in un luogo ristretto e in un lasso di tempo ristretto. Le statistiche variano ma le più affidabili dicono che quella di Dayton è la 22ª del 2019 e che già cento persone sono morte così. Donald Trump è riuscito a fare una gaffe anche in questa occasione, invocando la benedizione del Signore su Toledo, che è nell’Ohio come Dayton ma che, per sua fortuna, non ha subito attentati.

Ha finalmente condannato in modo esplicito il razzismo e il suprematismo bianco ma si è ben guardato dal condannare in egual misura il commercio delle armi che negli Usa è straordinariamente libero e ben poco controllato, come poco controllati sono pure gli acquirenti, qualunque sia la loro salute psicologica o mentale. Il che ha portato ad avere in giro per gli Usa 350 milioni di armi da fuoco, su una popolazione di 327 milioni di persone.

Trump, in compenso, ha criticato i «disgustosi videogame» basati sulla violenza, provocando un crollo in Borsa delle aziende del settore. E ha ricordato in modo assai discutibile che «sono l’odio e la disabilità mentale a premere il grilletto». Prendersela con lui è facile, e infatti molti lo accusano di aver creato un clima di risentimento razziale che aizza gli stragisti. Ma non è Trump il problema. Le statistiche dicono che i «mass shooting» hanno avuto fino al 2011 la frequenza di uno ogni 200 giorni. Da quell’anno, quando cioè il Trump politico non era nemmeno un’ipotesi, sono scesi a uno ogni 64 giorni.

Il punto vero è questo: gli americani vogliono risolvere il problema delle stragi e mettere un limite alla libera circolazione delle armi da fuoco? La risposta, almeno finora, è: no. Trump si è ben guardato, in questi giorni, dal proporre un qualunque inasprimento delle norme in base alle quali, negli Usa, si può comprare una pistola automatica o un fucile d’assalto. È partita la campagna per le presidenziali del 2020 e lui non vuole in alcun modo rovinarsi i rapporti con la potente lobby dei fabbricanti di armi, che da sola vale circa il 10% dell’economia americana.

Ma anche Barack Obama, che è tornato appunto ad attaccare Trump, concluse ben poco nei suoi due mandati. Nel 2013, un progetto di legge da lui sponsorizzato fu sonoramente bocciato dal Congresso. Prevedeva norme di puro buonsenso, in fondo poca cosa rispetto ai 15 mila americani che muoiono di proiettile ogni anno: qualche limite alla vendita ad acquirenti con una storia documentata di malattie psichiche e alla vendita nelle fiere, il bando delle armi d’assalto e caricatori con una capienza massima di dieci colpi. Obama capì l’antifona e non tentò più nulla di simile.

Non c’è notizia, nella storia recente degli Usa, di deputati o senatori non rieletti perché appassionati sostenitori di quel secondo emendamento della Costituzione («Essendo necessaria, alla sicurezza di uno Stato libero, una milizia ben regolamentata, il diritto dei cittadini di detenere e portare armi non potrà essere infranto») che, passando per una serie di ardite interpretazioni giuridiche, garantisce a chiunque la possibilità di tenersi un arsenale in casa. Mentre non sono rari i casi di politici che, per un’eccessiva opposizione, hanno perso il seggio e, in qualche caso, anche qualcosa di più prezioso. Inutile quindi prendersela con questo o quel presidente. Il problema sarà risolto, se lo sarà, più in basso. E non con una legge ma con una maturazione civile e culturale che, almeno finora, non è nemmeno all’orizzonte.

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