
(Foto di Nathan Dumlao su Unsplash)
FAKE NEWS E SALUTE. Alla «tre giorni» dedicata ai problemi cardiovascolari una sessione dei lavori è stata dedicata a far luce sui luoghi comuni più banali.
Le certezze della scienza, per andare oltre i luoghi comuni o – peggio ancora – le fake news. Vale per molti argomenti, e per la medicina in particolare. A illuminare con rigore i coni d’ombra della salute ci ha pensato l’edizione 2025 di «Grey Zones», la tre giorni che si è conclusa sabato 7 giugno al Centro Congressi Giovanni XXIII: all’interno di un appuntamento pensato per far chiarezza tra professionisti sulle «zone grigie» della cardiologia – ciò che ancora non è chiarito dalle linee guida della disciplina – è stato riservato un panel dal taglio divulgativo sui fattori di rischio e la protezione cardiovascolare. Il caffè fa bene o fa male? Le microplastiche sono un pericolo? Lo stress ci fa ammalare? Se ne discute parecchio, ma «per comprendere i fenomeni è importante basarsi sul metodo scientifico», è la riflessione di Michele Senni, direttore del Dipartimento Cardiovascolare del «Papa Giovanni» e responsabile scientifico del congresso. Dalla tavola rotonda condotta da Alberto Ceresoli, direttore de «L’Eco di Bergamo», sono arrivate risposte solide.
In un mondo dinamico e votato alla «performance», ad esempio, lo stress è una sfida quotidiana. «Lo stress non è una malattia: è una risposta adattativa dell’organismo a stimoli percepiti come eccessivi, e può essere acuto intenso o cronico – ha premesso Senni -. Il decesso di un caro può indurre a grande sofferenza temporanea del cuore, noi abbiamo tra le due e le quattro persone al mese ricoverate per questo. Lo stress non è causa di cancro, ma può aumentare il rischio di malattie cardiovascolari e autoimmuni». Va però compreso il tipo di stress, perché «non è tutto nocivo. Ci dobbiamo immaginare il nostro stress come una curva – è la metafora tratteggiata da Senni -. C’è una fase bassa di inattività e relax, poi si genera l’eustress: è quello che ci permette di essere efficaci, reattivi, performanti. Questo però non deve raggiungere l’apice, altrimenti si va verso l’ansia, l’esaurimento e la crisi». Come si fa a difendersi dallo stress quando diventa eccessivo? «Bisogna imparare a gestirlo – risponde Senni -: avere un atteggiamento positivo verso il cambiamento, dedicare tempo alla propria cura, alimentarsi in modo sano, fare attività fisica regolare, non esitare a chiedere l’aiuto».
La scienza s’interroga anche su abitudini quotidiane. È il caso del caffè, la seconda bevanda più consumata al mondo dopo l’acqua. Passando in rassegna gli studi, Claudio Borghi – ordinario di Medicina interna all’Alma Mater di Bologna e direttore della Medicina interna cardiovascolare del Policlinico Sant’Orsola-Malpighi di Bologna – ha evidenziato gli aspetti positivi e confutato quelli negativi, sintetizzando che «la media delle linee guida suggerisce da 3 a 5 tazzine al giorno». E il tè? «Va altrettanto bene», preferendo però quello in foglie a quello in bustina. «Il caffè non causa ipertensione – ha precisato Borghi -: al crescere del numero di tazzine al giorno, il rischio relativo si riduce in maniera significativa. Causa aritmia? Assolutamente no: i grandi bevitori di caffè hanno un’incidenza non significativamente superiore a coloro che non bevono, e vale anche per fibrillazione atriale». Tra i pochi effetti collaterali, quelli sul sonno e reflusso gastroesofageo.
Stefano Paleari, presidente della Fondazione Anthem e già rettore dell’Università degli Studi di Bergamo, si è soffermato sulle nanoplastiche e microplastiche: «Se i nostri nonni avevano il problema dell’amianto e i nostri genitori quello del piombo, noi e le nuove generazioni affrontiamo il tema della plastica. Con una differenza – chiarisce Paleari -: mentre è accertato scientificamente che amianto e piombo non fanno bene, oggi non abbiamo sufficienti elementi per dire che la presenza di nanoplastiche faccia male; per ora ci limitiamo a osservarne la presenza». Il primo passo è appunto questo: «Dobbiamo inventare degli strumenti per l’osservazione della presenza o meno di micro e nanoplastiche, e Fondazione Anthem ha uno specifico progetto sulla ricerca della presenza nei liquidi biologici – approfondisce Paleari -. Per le urine stiamo lavorando con risultati buoni, attraverso l’utilizzo di un raggio laser che può indicare la presenza, il diametro e la concentrazione delle plastiche».
Paleari guarda già ai prossimi passi, a partire dal «mettere a punto un protocollo che consenta di osservare queste nanoplastiche nei liquidi, poi passare alle urine e brevettare il metodo di detection e passare alla fase clinica. Siamo fiduciosi perché argomento è attenzionato a livello internazionale, speriamo di arrivare prima di altri ricercatori», sorride Paleari. Ma l’industria si sta adeguando alla sfida della riduzione della plastica? «Quando c’è incentivo economico, l’industria si ingegna – rileva Paleari -. Si può lavorare molto sul riuso della plastica e del controllo del ciclo di vita della plastica».
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