L’Europa ha bisogno del metodo Draghi

MONDO. Quando Ursula von der Leyen pronuncerà oggi il suo discorso sullo Stato dell’Unione, davanti ai parlamentari europei riuniti a Strasburgo, difficilmente potrà sfuggire a paragoni e raffronti con i contenuti del Rapporto sulla competitività dell’Unione presentato da Mario Draghi un anno fa.

Quel Rapporto, come spesso accade più citato che letto, ha avuto il merito di (ri)animare il dibattito pubblico sulla competitività europea e ha oggettivamente innervato alcune successive iniziative della seconda Commissione von der Leyen. Fino a che punto, però, si può dire che sia stato attuato? Il bilancio, da questo punto di vista, non è esaltante.

Lo European Council for Policy Innovation, un think tank brussellese, ha creato addirittura un «Indice di implementazione» delle 383 raccomandazioni proposte dall’ex numero uno della Banca centrale europea ed ex premier italiano. Soltanto l’11,2% di tali raccomandazioni sarebbe stato pienamente implementato (circa una su dieci), il 20,1% è stato parzialmente implementato, al 46% si è iniziata a dedicare una qualche minima attenzione, il 22,7% delle proposte non è stato nemmeno preso in considerazione. I settori sui quali Bruxelles avrebbe proceduto più spedita sono i trasporti e le materie prime critiche, nel tentativo di mettere in sicurezza almeno alcuni pezzi delle catene globali del valore, ma per il resto – hanno osservato gli studiosi dello European Council for Policy Innovation – «ciò che manca è il senso di urgenza».

A conclusioni simili è arrivata la testata online Politico.eu che, al termine di un’analisi di stampo qualitativo, ha generato un «Draghi-metro». Un punteggio basso, due su cinque, è stato raggiunto su adeguatezza del bilancio pubblico europeo e indebitamento comune. Quest’ultimo è ancora tabù a causa dell’opposizione dei Paesi cosiddetti frugali, in testa Germania e Olanda, mentre i primi esperimenti – come i prestiti per la difesa Safe da 150 miliardi di euro – impallidiscono di fronte ai 37.000 miliardi di dollari del debito pubblico statunitense. Sulla Difesa il punteggio è ancora più basso, uno su cinque nel «Draghi-metro», visto che in concreto si è andati poco oltre la nomina di un Commissario europeo per la Difesa, mentre nel settore continuano a prevalere logiche e gelosie nazionali. Al punto che, ha detto di recente Draghi, «gli Stati europei si accingono a una gigantesca impresa militare con 2 trilioni di euro – di cui un quarto in Germania – di spese addizionali nella difesa pianificate tra oggi e il 2031, eppure abbiamo delle barriere interne che sono equivalenti a una tariffa del 64% sui macchinari e del 95% sui metalli». Punteggio pieno, secondo Politico.eu, cinque su cinque, raggiunto invece sul fronte della sostenibilità ambientale, dove la semplificazione sembra essere la nuova stella polare, andando così incontro ad alcune delle richieste delle imprese che negli scorsi anni lamentavano pericolosi eccessi dirigistici.

Il ruolo di Draghi e le prospettive future

Cosa ne pensa Draghi dello stato di avanzamento del suo rapporto? Difficile dirlo, ma un indizio è nelle sue parole dello scorso 22 agosto al Meeting di Rimini. «Per anni l’Ue ha creduto che la dimensione economica, con 450 milioni di consumatori, portasse con sé potere geopolitico e nelle relazioni commerciali internazionali – ha detto Draghi –. Quest’anno sarà ricordato come l’anno in cui questa illusione è evaporata». Facile scommettere, dunque, che l’ex premier veda ampi margini di miglioramento per la competitività e il protagonismo dell’Ue a livello mondiale. Dunque, che fare? È corretta l’osservazione di Giovanni Orsina sul Giornale, secondo cui la ricetta draghiana di una «sempre maggiore integrazione del continente» non può essere attuata senza prima prendere atto che «se l’Europa oggi non è competitiva non è soltanto perché i singoli Paesi hanno pensato ciascuno ai fatti propri, è anche perché a Bruxelles si è sbagliato tanto». Come è anche plausibile, sostiene sempre Orsina, che importanza e urgenza di un obiettivo portino «a sottovalutare alquanto la complessità del percorso politico necessario per raggiungerlo».

A tal fine, però, faremmo bene a non considerare il Rapporto Draghi soltanto come un menu dal quale scegliere misure à la carte, o come un manuale chiavi in mano di cervellotica ingegneria istituzionale, ma piuttosto come un’ultima chiamata e il suggerimento di un diverso metodo europeista. Un europeismo meno ortodosso e auto-consolatorio di quello in auge nell’ultimo quindicennio, più diretto e perfino autocritico come quando ci descrive alle prese con «una sfida esistenziale». Un europeismo empirico e anti-ideologico, non illusorio visto che lo abbiamo già visto all’opera nell’estate del 2012, quando un’idea eccentrica, un’assunzione di responsabilità condivisa dietro le quinte con alcuni leader europei e appena tre parole dello stesso Draghi («Whatever it takes») bastarono a salvare la moneta unica a trattati invariati. Più che una specifica ricetta, appunto, un metodo da replicare e mettere all’opera. Se ne avremo la volontà e la forza.

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