«I miei primi 90 anni, sempre di corsa»
La storia del maratoneta Lavelli

Rino Lavelli lunedì 12 novembre compirà novant’anni, ma potere della natura (e un po’ dell’atletica), oltre che sfogliare l’album dei ricordi guarda ancora avanti: «Mi hanno operato a inizio anno alla cartilagine del ginocchio: cammino da tre mesi, la speranza è di tornare a gareggiare».

BergamoAtletica se lo augura vivamente, e nel frattempo si appresta a fare gli auguri di buon compleanno a una delle sue leggende viventi, quello che può essere considerato il nonno agonistico dell’intero movimento.

Sei titoli italiani assoluti, otto maglie azzurre, una partecipazione all’Olimpiade, cinque Monza-Resegone, una Cinque Mulini, un Campaccio, sono solo alcuni numeri della carriera del Lavellino (38 battiti al minuto, 50 chili distribuiti su un fisico di 160 centimetri), inossidabile alle leggi del tempo: ieri come oggi ha occhi penetranti, pensieri lucidi, energia da vendere.

Ti accoglie nella sua casa di Ponteranica, ai piedi della Maresana, in impeccabile divisa da runner, ripercorrendo la sua storia dai blocchi di partenza: «La prima gara che feci fu una campestre a Borgo Palazzo in cui arrivai terzo quasi per gioco – ricorda parlando del 1948 - . Io con scarpe di tela, gli altri con le chiodate. Dopo anni tra ciclocross e calcio iniziai a fare sul serio con l’atletica, mi volle la Reggiani».

Particolare per non aver mai avuto allenatore, speciale per essere sempre stato considerato uno spirito libero, il meglio della carriera di Lavelli arrivò nel periodo tra il 1953 e il 1956. Vinse il titolo italiano assoluto dei 5.000, dei 10.000 metri, di mezza (20 chilometri), e il primo dei tre di maratona (gli altri furono nel 1957 e nel 1960): «Mi ingaggiò la Pirelli che mi diede anche il posto di lavoro - continua Lavelli -. Rinunciai all’ingresso nelle Fiamme Oro, e ancora oggi non so se ho fatto la cosa giusta».

Di certo, lui atleta poliedrico come pochi (primeggiava in tutte le distanze dai 3.000 in su), aveva un amico-rivale speciale: «Gianni Peppicelli, di Città delle Pieve: a volte ci mettevamo d’accordo su chi dovesse tagliare per primo il traguardo per dividerci i premi: poi un giorno il suo presidente ci scoprì e la rivalità si accese ancora di più». Nonno sprint Rino (spegnerà le candeline sulla torta con il figlio Massimo e due nipotini) dice che il segreto dei suoi successi è stata la sua storia di vita: «Qui sotto a casa mia quando ero ragazzo c’era una stalla, sono cresciuto in una famiglia contadina. L’atletica, oltre che la mia passione, è stata un modo per guadagnarmi da vivere e scoprire il mondo».

Dopo che all’inizio spostarsi dall’hinterland al cuore della città sembrava un evento, è stato a correre maratone a Buenos Aires, Bucarest, Atene, Berna e Melbourne. Sì, l’Olimpiade del 1956, quella in cui si ritirò dopo aver gareggiato a fianco del leggendario Emil Zatopek. «Ma la storia dei problemi di digestione a causa di una bistecca è un’invenzione di voi giornalisti – tiene a precisare -. Avevo un problema alla tibia curato male: mi imposero il riposo, ma la situazione peggiorò».

Superata la quarantina, si diede all’ultramaratona. Nel 1970, sulla pista del Comunale di Bergamo, stabilì il primato italiano della 24 Ore su pista (197 km e 889 metri, successivamente portato a 242 km e 373 metri quando aveva 48 anni) di fronte a 5 mila persone, cosa mai più rivista. Alcuni imprenditori locali gli avevano promesso 1.000 lire per ogni chilometro nel caso avesse superato quota 150 km: «Per reintegrare mi diedero il sale, ma mi mandò in crisi – ricorda -. Una volta stabilito il primato volevo ritirarmi ma mi convinsero a rientrare e fu un errore con conseguenze nefaste. Sotto casa c’erano le troupe della tv ma non riuscii a concedere interviste: per tre giorni non mi sono retto in piedi».

Il suo giorno da ricordare è la vittoria della Cinque Mulini ’56: «C’era il meglio al mondo». Il rimpianto è la mancata convocazione per le Olimpiadi di Roma ’60: «A Busto Arsizio mi presi la rivincita prendendomi il titolo di maratona di quell’anno davanti ai tre selezionati con personale a 2h25’19”». Già, quanto varrebbe Lavelli nell’atletica di oggi? Impossibile dirlo. Lui ha un rammarico: «Quello di non aver mai preparato una sfida sui 42 km e 195 metri in maniera specifica: facevo 60 gare all’anno, a volte tre ogni weekend, una volta per gareggiare prima a Napoli e poi a Roma rischiai di fondere il motore della mia 600…». Il suo, di motore, è ancora integro: e chissà che a breve, non rombi di nuovo per stabilire qualche primato di categoria M 90.

© RIPRODUZIONE RISERVATA