I ricordi di Gianni Mura: «Indomabile
Un indio uruguagio nato sul Brembo»

Il ritratto di Felice Gimondi dell’amico scrittore Gianni Mura: «Grinta, rigore e classe». «Pantani era il suo cruccio, e forse lassù gli dirà: “Se mi avessi dato retta, ora non saresti qui”». L’intervista uscita nei giorni scorsi su «L’Eco di Bergamo».

Luglio 1965. Il giovane Felice Gimondi vince a sorpresa il Tour de France, e la Gazzetta dello Sport manda il giovane cronista Gianni Mura a raccontarne il trionfale ritorno a Sedrina. È il primo contatto fra due autentici fuoriclasse – l’uno della bici, l’altro della penna – destinato a tramutarsi negli anni in un’amicizia solida, e soprattutto sincera.

«Forse amici lo diventammo qualche tempo dopo a Diano Marina – ricorda Mura, oggi scrittore e storica firma di Repubblica – durante un ritiro di inizio stagione con la Salvarani. Una sera lo “sorpresi”, mio malgrado, mentre usciva vestito come se dovesse andare a un matrimonio: aveva invitato fuori a cena Tiziana, la figlia del proprietario dell’albergo (al quale ovviamente aveva preventivamente chiesto il permesso) che sarebbe poi diventata sua moglie. Mi pregò di non scrivere nulla e io non scrissi nulla. Nacque così il nostro rapporto “privato”, anche se i nostri destini si erano incrociati già prima. Perché nel 1965 Felice aveva fatto il suo primo Giro d’Italia, e io anche. E l’anno dopo accadde che l’inviato della Gazzetta avesse il passaporto scaduto e io venni mandato, a 21 anni, a seguire la Parigi-Bruxelles. Che Felice vinse staccando Merckx sulla salita davanti a casa sua. Cominciai a frequentare casa Gimondi a Sedrina, dove Felice e papà Mosè non parlavano, e mamma Angela appena di più. E poi c’era questo rapporto speciale con Antonio Ghisalberti, presidente della Sedrinese, che andava oltre la bici: Felice vedeva in lui una guida, la persona retta che, ne era convinto, gli avrebbe dato una mano anche nella vita, oltre che nel ciclismo».

Altri tempi, altro sport, altro giornalismo. «Altre abitudini: a Sedrina per il vincitore del Tour fecero una festa sul prato dell’oratorio, due discorsi, due medagliette e tutti a casa, non era l’epoca dei selfie. E nel 1969, quando il Giro passò da Sedrina con Gimondi in maglia rosa, noi inviati restammo stupiti nel trovare le strade deserte: la gente del paese era tutta a lavorare». Al Giro o al Tour, l’appuntamento fisso era a fine tappa, al momento dei massaggi: un rituale durante il quale normalmente i corridori chiudono fuori il mondo, e invece era proprio in quel momento che Gimondi «si lasciava andare. Era uno che si arrabbiava se le cose non andavano per il verso giusto. Sentiva la corsa come pochi. Aveva anche un fortissimo senso della rivincita. Se non era andato bene si leccava le ferite e digrignava: “Domani gliela rendo”. Spesso ci riusciva. Solo una volta, che io ricordi, mancò all’appuntamento: eravamo al Tour, lo aspettavamo sui Pirenei. Invece prese una bambola in piena regola, ma scoprimmo poi che era debilitato da un malanno gastrointestinale».

Sentiva la corsa, fosse il Tour o un circuito di esibizione: «Fosse stato un calciatore nato in Uruguay anziché un ciclista nato in riva al Brembo, avrei parlato di garra charrua, quel misto di grinta, rabbia, sacrificio, tignosità, proprio dei charrua, piccola tribù di indios che lottò fieramente contro i colonizzatori». Una lotta impari, come quella che Gimondi si trovò ad affrontare quando all’orizzonte spuntò Eddy Merckx. L’incubo della sua carriera, ma anche il sale capace di dare a ogni suo successo il gusto dell’impossibile. Perché se c’era di mezzo il Cannibale, tutto valeva di più. «Ma era valido anche il contrario, tanto che proprio Merckx ha reso a Gimondi l’omaggio più bello, da campione a campione: “Parlate sempre tutti di quanto io abbia influito negativamente sulla carriera di Felice, ma nessuno pensa mai a quanta fatica mi costava batterlo”. A fine carriera, i due presero a vedersi regolarmente, una volta l’anno. Ricordavano, parlavano, ridevano». Fino a mezzanotte, perché poi Felice («come Cenerentola»), si ritirava. Non c’era verso di farlo sgarrare: «Italo Zilioli – osserva Mura – racconta che se gli proponevi di aggiungere al gelato un dito di whisky, lui ti rispondeva: “non posso, ho una cronometro fra 15 giorni a Forlì...”». Garra, rigore comportamentale, ma anche classe. «Tanta, diversamente non avrebbe vinto quello che ha vinto. In quegli anni sul fronte interno c’era la forte rivalità con Gianni Motta, ma se all’estero volevi vincere qualcosa, una Roubaix o un Tour, dovevi affidarti a Gimondi. Campione completo, gli mancava solo qualcosa allo sprint».

Eppure allo sprint arrivò il Mondiale del 1973, vinto a Barcellona: «Fu una sorta di indennizzo del destino. Quel giorno in casa belga ci fu un regolamento di conti fra Maertens e Merckx, che alla fine tirò la volata a Gimondi. Intendiamoci, se Merckx fosse stato in grado di vincere quel Mondiale, l’avrebbe vinto. Ma sentendo di non avere la condizione per farlo, preferì che a batterlo fosse Felice. Io quel giorno mi trovavo in Turchia. Quando seppi com’era finita, ebbi un’ottima scusa per stappare una bottiglia di rosé».

Già, perché Mura, oltre che profondo conoscitore di ciclismo, è anche fine esperto di enogastronomia. A proposito, che vino sarebbe stato Gimondi? «Un rosso intenso, un rosso piemontese. Mi dispiace non poter dire un vino bergamasco, ma penso di non fargli torto se dico che sarebbe stato un bel Barolo». Capace di inebriare il popolo degli appassionati, con le sue imprese prima e con la sua saggezza poi, per oltre mezzo secolo. Vittorie e sconfitte. E un unico grande cruccio: non essere riuscito a salvare Marco Pantani. «Eppure Gimondi – assicura Mura – era uno dei pochi che Marco avrebbe ascoltato. Ne ho discusso a lungo con Felice in questi anni. Purtroppo negli ultimi tempi non riuscì a parlargli, Marco non voleva sentire più nessuno. Non fu colpa di Felice: salvare Pantani sarebbe stato difficilissimo per chiunque, per la particolare sensibilità di un ragazzo troppo vulnerabile».

E cosa gli dirà Gimondi, incontrandolo lassù? «”Se mi avessi dato retta, ora non saresti qui”. Però tranquilli, lo farà con la dolcezza e la pacatezza di cui era capace».

© RIPRODUZIONE RISERVATA