«Accoglienza ucraini: la Chiesa non resti sola»

Un anno di guerra. Gioie e fatiche delle comunità parrocchiali che hanno aperto le porte a 337 profughi. Il vescovo: «È un valore morale».

La guerra in Ucraina non è finita, l’accoglienza non è finita. Lo dice con tono vibrante, il vescovo Francesco Beschi, in chiusura dell’incontro «Comunità accoglienti, fraterne e ospitali», ieri in Seminario. Si dice «toccato e coinvolto» dalle tante testimonianze ascoltate. Di sacerdoti, suore, volontari, famiglie ospitanti e ospitate, che hanno condiviso gioie e fatiche di un cammino iniziato quasi un anno fa. Nella consapevolezza che non si tratta di una pagina chiusa. «La Chiesa di Bergamo c’è stata, c’è e ci sarà sempre – assicura monsignor Beschi –, non perché siamo i più bravi, ma perché crediamo che il Vangelo è una forza che non si esaurisce mai». E se c’è un’attesa, così la definisce, «è quella di non rimanere soli». La chiamata è «all’esercizio di un’accoglienza che non è solo un’emergenza, ma è un modo di vivere insieme per migliorare la convivenza umana. L’accoglienza non è uno spazio libero, ma un valore, una scelta morale, che costa cara, e non solo in termini economici, richiede fatica».

L’appello a un impegno corale, proseguendo nella strada di una solidarietà diffusa e generalizzata, ha risuonato per tutto l’incontro (molto partecipato) voluto da Caritas diocesana bergamasca per ringraziare i tanti che si sono mobilitati, a partire dalle comunità parrocchiali, e per rileggere quanto accaduto dal 24 febbraio 2022. Una data spartiacque per il popolo ucraino, e per la Chiesa di Bergamo, che da subito si è attivata per l’accoglienza dei profughi. Sono stati 337, soprattutto donne e bambini, quelli a cui sono state aperte le porte. Guerra e pace vanno chiamate col loro nome, non hanno dubbi il presidente di Caritas monsignor Vittorio Nozza e il vescovo. «Noi siamo per la pace – rimarca monsignor Beschi – e per essere uomini e donne di pace ci sono alcuni gesti da fare». La preghiera: «Non vogliamo abituarci a questa guerra, per questo preghiamo tutti i giorni, domani sera (stasera, ndr) ci sarà una veglia ecumenica con esponenti di diverse comunità cristiane». L’aiuto umanitario: «Un terzo della popolazione ucraina dipende dagli aiuti umanitari. La battaglia per la pace non si fa inviando armi». La conoscenza critica: «Serve mantenere un’attenzione critica verso l’informazione». La promozione di una cultura e di una politica di pace: «Rifiutiamo il motto “se vuoi la pace prepara la guerra”; noi siamo per il “se vuoi la pace prepara la pace”». E appunto l’accoglienza: «Siamo comunità fraterne, ospitali. La fraternità cristiana non può che essere accoglienza che si fa vicino a chi è piccolo, insignificante, lontano. Rinunciamo alla perfezione ma non a metterci in gioco».

Le comunità coinvolte

La scelta, quindi, ricorda monsignor Nozza è stata «impastare quotidianità ed emergenza». Imboccando la strada «di un’accoglienza il più ampia e diffusa possibile, e non centralizzata, per dare quell’humus, che solo le relazioni e gli incontri possono garantire». Parla di «fantasia della carità», di una responsabilità collettiva, che ha coinvolto «ognuno di noi, istituzioni, le diverse espressioni ecclesiali, i mondi imprenditoriali, non solo per trovare solo soldi e strumenti, che comunque servono (oltre 1,5 milioni sono stati raccolti e messi a disposizione di Caritas italiana per contribuire a interventi umanitari, al confine in Ucraina, ndr), ma per suscitare stili di vita fraterni e speranza comunitaria, facendo esperienza di prossimità e fraternità, stando accanto a volti e storie di vita martoriati, ricreando una quotidianità che è stata frantumata dalla guerra». In 11 mesi «sono germinati semi che non vanno dispersi, imparando a distinguere, nel caos dell’emergenza, anche la più piccola, come la perdita della casa o del lavoro, cosa è importante mantenere nel tempo».

Il direttore di Caritas don Roberto Trussardi riprende il filo: «Fare di tutto e di più nell’emergenza, anche se siamo bravissimi, non basta. Un’esperienza è significativa se diventa empatica: abbiamo cercato di comprendere il vissuto traumatico di mamme, nonne, bambini che si sono fatti 2mila km per venire qui. E se crea legami, non quelli che opprimono, ma quelli che fanno nascere parole, incontri, esperienze. La Chiesa e Caritas sono chiamati a creare una cultura che prova a dire quanto è importante un’accoglienza che integra chiunque arriva in mezzo a noi, senza differenze». Distinzioni su cui pone l’accento don Sergio Gamberoni, direttore dell’Ufficio per la pastorale dei migranti: «La politica è scandalosa, quando afferma un approccio diverso tra i profughi ucraini e tutti gli altri profughi. Grazie all’Ucraina, perché nel dramma ci ricorda di quanta umanità potremmo essere capaci». L’accoglienza ha tirato fuori «il desiderio di essere parte di una storia buona», e di questa storia «protagonista è stata anche e soprattutto la comunità ucraina che risiede in Bergamasca, che ha accolto più del 60% dei profughi arrivati»

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