Bergamo abbraccia tre nuovi diaconi: «Sono uomini di servizio»

SEMINARIO. Il Vescovo Beschi ordinerà martedì sera, 31 ottobre, Nicolò Bonfanti, Matteo Cortinovis e Davide Rovaris. Don Frigerio: «Hanno scoperto la libertà nel donarsi».

Nell’abbraccio della chiesa di Cristo Sommo ed Eterno Pastore del Seminario, martedì sera, 31 ottobre, alle 20,30, per l’imposizione delle mani del vescovo Francesco saranno ordinati diaconi tre ragazzi della nostra diocesi: è il momento sacramentale che sigilla il passo deciso e definitivo verso il presbiterato. Nicolò Bonfanti, classe 1999 di Pedrengo, Matteo Cortinovis suo coetaneo e compaesano, e Davide Rovaris, 25 anni, di Villa di Serio diventeranno infatti preti il prossimo 25 maggio. Hanno quindi di fronte sette mesi in cui saranno diaconi, tempo della gestazione spirituale perché possano rinascere nuovi, come pastori per le comunità che saranno loro affidate. È significativo il fatto che la Chiesa faccia vivere questo tempo di mezzo, un passaggio che non passa, che rimane e che è indispensabile per poter ricevere il dono dell’essere preti. Perché in questo modo dice che in questo passaggio c’è una sorta di apprendistato, una disposizione d’animo necessaria, un’identità senza la quale non si può diventare preti, perché lo si diventerebbe male.

«Tutto è emanazione di quel grembiule»

Si apre il tempo in cui indossare esistenzialmente quel grembiule che Gesù ha rivestito durante la lavanda dei piedi. Don Tommaso Frigerio, vice rettore della comunità di teologia, che ha accompagnato da vicino i passi di questi tre giovani, commenta così: «Il diacono è l’uomo del servizio. L’ordinazione diaconale, dentro alla prospettiva del diventare un giorno preti, si può pensare come il momento in cui si infila quel grembiule che, da allora in poi, rimarrà sempre loro indosso. Avranno un grembiule mentre servono all’altare, mentre proclamano la Parola, lo porteranno sotto i vestiti di tutti i giorni, mentre stanno al bar dell’oratorio o mentre sono in coda alle poste. Non è il grembiule per un servizio da schiavi, è il servizio di chi ha scoperto la propria libertà nel dono di sé al prossimo per il Regno. Tutto sarà emanazione di quel grembiule sacramentalmente legato alla loro vita». È quindi come se la Chiesa dicesse che non puoi essere un buon prete se non vivi questa scelta nell’ottica del servizio. Un servizio che ha a che fare anzitutto con il rimboccarsi le maniche, con la generosità del mettersi a disposizione: il nostro tempo ascolta più volentieri i preti che sono anzitutto uomini appassionati e dediti, nei cui occhi e nelle cui azioni si intuisce il riflesso della cura infaticabile di Dio per il suo popolo.

Un servizio che allora è chiamato a diventare uno stile di vita e non solo un modo di fare quando c’è bisogno: non un abito da lavoro, ma un tratto permanente della fede, che fa sentire come proprie la sete di felicità, le ansie, le paure e i dolori delle persone che si incontrano. San Paolo, quando scrive per la seconda volta ai Corinzi, dice che non intende farla da padrone sulla loro fede, ma essere riconosciuto come un collaboratore della loro gioia: preti perché a servizio della pienezza del Regno, che in modi e situazioni diversi ha bisogno di una mediazione per raggiungere la vita degli uomini. P reti che non lo fanno per mestiere, o quando serve. Preti fino al midollo, perché si condivide la tenerezza e la commozione che Dio prova.

Essere ragazzi di carità e diventare giovani in cui si avverte il palpito di due cuori, quello di Dio e quello della comunità cristiana, sono la disposizione giusta per guadagnare una terza sfumatura a proposito del mettersi a servizio: si tratta della disposizione spirituale di chi sa di non essere il capo, ma un servitore. Diventare preti non è un merito, né una conquista. È un servizio, una cosa che sta in basso e che si accoglie non perché si è bravi, ma perché si vede un bisogno di cui ci si interessa: per meno di questo si perdono le proporzioni evangeliche del senso, che è custodito da ciò che sta in basso, dai piccoli, dai piedi dei poveri, dai bisognosi, dagli umili. A questa altezza si rende un po’ più visibile il Dio invisibile a cui questi ragazzi consegnano il meglio del proprio tempo, delle proprie energie e delle proprie aspirazioni. Ed è una scelta che può essere fruttuosa solo se ha il profumo della gioia, non della mortificazione.

L’identità del diaconato

Questa è l’identità profonda che il diaconato vorrebbe scolpire nei gesti e nel Dna spirituale di questi ragazzi. Qualcosa di tutto questo già germoglia dagli anni del cammino di seminario. Si affaccia dentro le risposte che Nicolò, Matteo e Davide danno alla domanda esplicita in merito a cosa voglia dire per loro vivere questo momento in cui diventano diaconi, in cui sono chiamati a considerare che cosa ne consegua per la loro fede e il loro cammino verso il sacerdozio. Nicolò dice che «vivere il servizio diaconale vuol dire essenzialmente che io per primo eserciti la virtù della diaconia, cingendomi i fianchi e chinandomi a lavare i piedi al mio prossimo, in qualunque momento egli abbia bisogno. Non è solamente compiere una buona azione, o essere una persona buona. Essere ordinato diacono è assumere come stile di servizio lo stile di Gesù, che fino alla fine ha amato, fino alla fine si è donato, fino alla fine ha visto in noi uomini i destinatari del suo lieto annuncio».

Per Matteo «vivere il servizio diaconale è vivere maggiormente la Carità. Credo sia proprio la Carità, dopo l’ordinazione, a dare di più alla mia vita. Si è servitori perché educati alla scuola del Maestro, il Signore, dal quale si apprende cosa sia l’amore: da Lui ricevuto e agli altri, ora, ridonato nella gioia. Questo è un onore e un onere, perché ci si sente investiti di un compito importante». Secondo Davide «prima di tutto c’è il servizio all’altare e alle varie funzioni, che è il punto di partenza e di arrivo di ogni giornata. Ma non c’è solo questo. C’è il servizio a chi hai accanto, alle persone che quotidianamente incontri e che chiedono una mano, un aiuto, una preghiera, o anche solo una chiacchierata. Ciò che l’ordinazione dà in più penso che sia il fatto che da quando sei diacono il servizio non è un’attività che puoi fare per un po’ di ore al giorno, ma diventa uno stile di vita».

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