«Covid, sui vaccini sono ottimista»
Parla l’immunologo Sergio Abrignani

«Se tutto va come deve, avremo un antidoto solo un anno dopo
aver sequenziato il virus». Nell’attesa è fondamentale rispettare le misure di prevenzione per ridurre le infezioni.

Il mondo accelera. Ci sono voluti 28 anni per avere il vaccino contro la varicella, 15 per l’antidoto contro il papilloma virus. E invece: «Se tutto va come deve, a febbraio in Europa potremo avere le prime dosi contro Sars-CoV-2. È un fatto epocale: potremmo riuscire ad avere un vaccino un anno dopo aver sequenziato il virus». Sergio Abrignani – immunologo, una vita trascorsa a studiare il virus dell’Epatite C – è ordinario di Patologia generale all’Università degli studi di Milano e direttore scientifico dell’Istituto Nazionale Genetica Molecolare «Romeo ed Enrica Invernizzi». E sul fronte vaccino Abrignani inietta una buona dose di ottimismo.

Cosa la rende così ottimista, professore?

«Le caratteristiche di questo virus: muta relativamente poco, dà in circa il 97% dei casi un’infezione acuta che il nostro sistema immunitario riesce a risolvere da solo in poche settimane, e non produce infezioni croniche. Queste peculiarità dovrebbero rendere il vaccino relativamente facile da fare, in confronto ad altri».

Facile, ma forse non abbastanza veloce da metterci immediatamente al riparo: siamo nel pieno della seconda ondata e la affronteremo senza vaccino.

«Entro fine anno dovremmo avere i dati su almeno due vaccini: quello prodotto da AstraZeneca, a base di vettori virali, e quello prodotto da BioNtech con Pfizer, a base di Rna. Se verranno autorizzati, le prime dosi – già opzionate dall’Unione Europea – potrebbero arrivare da noi attorno a febbraio per essere somministrate alle categorie a rischio. Si tratta di un risultato eccezionale dovuto ad un’accelerazione mai vista prima. Si è accelerata la ricerca, lo sviluppo clinico, le procedure regolatorie, la revisione dei dati e anche la produzione del vaccino, già in corso».

Ci faccia capire: si sta già producendo il vaccino senza aver ottenuto l’autorizzazione?

«Sì, e la cosa ci fa guadagnare moltissimo tempo. Gli Stati hanno deciso di sovvenzionare loro stessi la produzione dei vaccini assumendosi il rischio che non vengano autorizzati e vadano buttati: un rischio che, economicamente, conviene. Molto più di un altro lockdown: solo in Italia in due mesi di chiusura s’è perso il 10% del Pil».

Quest’accelerazione non inficia su qualità e sicurezza del vaccino? C’è stata qualche battuta d’arresto, nei giorni scorsi...

«Assolutamente no. Queste battute d’arresto si verificano puntualmente, solo che non c’è tutta questa attenzione puntata addosso. E poi rappresentano la massima garanzia che si stanno facendo controlli e verifiche estremamente scrupolose».

Scenario migliore: i due vaccini attualmente in corso di valutazione da parte dell’Ema, l’Agenzia europea per i medicinali, vengono approvati entro fine anno. A chi spetteranno e come verranno somministrati?

«Si faranno due dosi, una a distanza di un mese dall’altra. Significa che, se s’inizia a febbraio, le prime persone vaccinate inizieranno ad essere protette ad aprile. Si parte sempre da medici e operatori sanitari, persone a rischio, ospiti delle Rsa con multimorbilità, forze dell’ordine, membri del Governo, e poi a cascata sulla comunità. Per avere un’efficace immunità di gregge dovremo però attendere che la popolazione vaccinata raggiunga almeno il 70-80%. Del resto, l’abbiamo dimostrato con il vaiolo e la poliomielite: esiste solo uno strumento per eradicare una malattia infettiva, il vaccino. A maggior ragione nel caso di questo virus, che si è visto avere un tasso di contagiosità altissimo, e contro il quale i farmaci antivirali non sembrano funzionare a dovere».

Scenario peggiore: i due vaccini che l’Ema sta valutando non funzionano e non ottengono il via libera. A quel punto?

«Aspetteremo realisticamente la metà del prossimo anno, quando arriveranno i vaccini che attualmente sono ancora alla fase 1: sono vaccini basati su proteine ricombinanti, che potrebbero essere – in base ai dati finora raccolti – anche quelli migliori, che sembrano indurre le risposte immunitarie più potenti. Per spiegare meglio: tutti i 200 vaccini oggi allo studio vogliono indurre una risposta immunitaria anticorpale contro la proteina spike, la proteina del virus che si lega alle cellule umane. La differenza sta in come ci arrivano, a questo risultato. Il vaccino di Pfizer si basa sull’Rna, e sarebbe il primo vaccino al mondo sul mercato di questa tipologia. Quello di AstraZeneca, invece, sul vettore virale. Entrambi sono più rapidi da fare, rispetto ai vaccini che si basano sulle proteine ricombinanti: ecco perché hanno almeno sei mesi di vantaggio».

Calendario alla mano, anche lo scenario migliore ci dice che – con ogni probabilità – il prossimo inverno ce lo faremo tutti senza protezione vaccinale.

«È così: ecco perché le misure di prevenzione devono essere rispettate. Peraltro, utilizzando mascherine, distanziamento e lavaggio delle mani, ridurremo le patologie respiratorie tipiche del periodo: lo si è già visto in Australia, dove le infezioni respiratorie sono state ridotte di circa il 70%».

Per quanto tempo renderà immuni il vaccino contro Sars-CoV-2?

«Con certezza ancora non lo sappiamo. Ma potrebbero essere anni: ce lo dice la scienza, l’immunologia per la precisione. Sappiamo infatti che chi si vaccina, al di là della quantità di anticorpi prodotti (dai linfociti b), sviluppa una sorta di memoria immunologica cellulare (che dipende dai linfociti t) che lo rende decisamente più protetto di un individuo cosiddetto vergine, ossia mai vaccinato. Lo si è visto chiaramente in Africa, con le bambine vaccinate contro l’Epatite B».

Lei è uno dei maggiori studiosi del virus dell’Epatite C, studi che ha condiviso con Michael Houghton, premio Nobel per la Medicina 2020: si sono trovati farmaci molto efficaci, ma non si è mai arrivati ad un vaccino contro l’Epatite C.

«Mike, amico fraterno oltre che collega, ha vinto il Nobel per aver identificato il virus dell’Epatite C nel 1989. Dal 1992 al 2005 abbiamo lavorato insieme nel tentativo di trovare un vaccino: purtroppo non ci siamo riusciti, né noi né nessun altro. Questo perché il virus dell’Epatite C ha un tasso di mutazione estremamente elevato che induce un’infezione cronica. A differenza di Sars-CoV-2».

© RIPRODUZIONE RISERVATA