«Io, con il Parkinson a soli 34 anni. Ma ho scelto di diventare mamma»

Valentina Margio, il racconto di una giovane coraggiosa che ha sospeso le cure con i farmaci per poter partorire.

È allegro il piccolo Angelo e guardandolo sorridere in braccio alla mamma Valentina Margio si può pensare davvero che, come scrive Paul Claudel, «la vita è una grande avventura verso la luce». Quel bambino è come un raggio di luce che fa impallidire le ombre della vita, in lui si concentra una corrente di coraggio e di rinascita. Valentina ha scoperto a 34 anni di avere la malattia di Parkinson, ed è stato un colpo durissimo, ma non si è arresa. È rimasta incinta, ha affrontato la gravidanza e il parto «come un salto nel buio» accettando di sospendere i farmaci per proteggere il figlio che portava in grembo, e lui è venuto al mondo proprio il 21 febbraio 2020, poi passato alla storia come il giorno del Covid, quello in cui è stato individuato il primo caso italiano. La sua storia ora è narrata nella mostra fotografica parlante «Non chiamatemi morbo. Storie di resistenza al Parkinson», con gli scatti del fotoreporter bergamasco Giovanni Diffidenti e i dialoghi recitati di Claudio Bisio e Lella Costa, all’Accademia Carrara dal 15 maggio al 6 giugno (www.nonchiamatemimorbo.info).

Era il 2016 quando Valentina si è accorta dei primi sintomi della malattia: «Faticavo a scrivere, sentivo la mano irrigidirsi. Mi sono rivolta a un neurologo, ma dalla visita non è emerso nulla». È passato un anno, e si sono presentati nuovi segni più intensi: «Mi faceva male il braccio destro – racconta – e lo muovevo meno del sinistro, ma credevo che fosse un problema derivato da un’ernia cervicale. Quando ho incontrato nuovamente il neurologo, invece, mi ha diagnosticato la malattia di Parkinson, mi ha prescritto una serie di esami e i risultati, arrivati all’inizio del 2018, lo hanno confermato».

Allora Valentina lavorava in un negozio di telefonia e svolgeva attività di volontariato in un canile: «Sono entrata in ospedale per avere delucidazioni su un’ernia e mi è arrivata questa “mattonata” – ricorda –. Per di più era iniziata da poche settimane la storia d’amore con il mio compagno. Mi sono sentita persa. Il medico, esperto di Parkinson, me l’ha detto con una certa freddezza. Sono rimasta sorpresa, ma mi sono ricordata di un attore che mi piace molto, Michael J. Fox, anche lui malato di Parkinson, sapevo quindi che questa patologia poteva insorgere in età giovanile, anche se si trattava di casi rari. Quando ho cercato qualche ragguaglio su internet, infatti, mi sono accorta che le informazioni disponibili erano davvero poche».

In contatto con l’Aigp

Una malattia come questa scompiglia le carte e cambia completamente la prospettiva sulla vita: «Sono stata costretta a compiere scelte che poche settimane prima non avrei mai considerato. Nonostante amassi moltissimo la mia cagnolina, Costa, che avevo adottato due anni prima nel rifugio dove svolgo attività di volontariato, sono stata costretta ad affidarla ad altri. La mia condizione, infatti, per lei era diventata fonte di uno stress insostenibile, di notte piangeva e di giorno scappava di casa per raggiungermi. Ho tentato di tutto per poterla tenere, ma ho dovuto rendermi conto che non avevo la forza di gestire anche questa situazione. Ero troppo impegnata a rimuginare su me stessa, tutto il resto è scivolato in secondo piano».

Valentina ha iniziato le terapie, con qualche difficoltà: «Ho avuto molti effetti collaterali, e non sapevo più che cosa fare. Grazie al mio compagno un anno dopo la diagnosi mi sono messa in contatto con l’Aigp, Associazione giovani parkinsoniani, e grazie a loro ho preso contatto con l’Humanitas di Milano, dove sono riuscita a mettere a punto una terapia farmacologica efficace. Ho iniziato anche a soffrire di ansia, sono dimagrita, non riuscivo più a lavorare. Ho iniziato un percorso di psicoterapia che mi ha aiutato moltissimo, mi ha davvero salvato la vita offrendomi gli strumenti giusti per gestire le mie difficoltà. La psicologa mi ha spiegato che la mia sofferenza era simile a quella di chi ha vissuto un lutto. Era come se fossi morta a me stessa e dovessi imparare a conoscermi di nuovo».

La notizia della gravidanza

Alla fine di questo itinerario di cura Valentina si sentiva come rinata: «Proprio in quel momento è arrivata la notizia della gravidanza e per me si è davvero riacceso il sole. La gioia e l’aspettativa erano tali che sono riuscita ad accettare anche scelte difficili come quella di sospendere i farmaci che assumevo, perché erano molto forti e non c’erano studi sui possibili effetti sul feto. Ho avuto paura, è stato un salto nel buio». Senza l’aiuto delle medicine, Valentina era consapevole di essere una preda facile di Mr Parkinson, e temeva di trovarsi di fronte al suo lato più oscuro. Alla fine, però, è andato tutto bene: «In modo del tutto inaspettato ho notato anche alcuni miglioramenti: sicuramente si è risollevato il tono dell’umore, anche perché invece di piangere su me stessa ho incominciato a pensare al futuro, a coltivare nuove speranze e aspettative. A livello fisico ho avuto alcune difficoltà, mi si sono irrigiditi i muscoli della parte destra del corpo, non riuscivo a compiere neppure i piccoli movimenti quotidiani come pulire una caffettiera o grattugiare una mela». Valentina, che abita a Ponte delle Alpi, in provincia di Belluno, in quel periodo stava cambiando lavoro, ma la nuova azienda alla fine non l’ha assunta perché era incinta: «Il lato positivo – commenta – è che essendo a casa potevo riposarmi e godermi i mesi di attesa. Ero molto preoccupata per il parto perché il Parkinson porta con sé stanchezza e un peggioramento delle performance a livello motorio. Al corso di preparazione nessuno sapeva rispondere alle mie domande. Così mi è venuta l’idea di scrivere un diario per offrirlo ad altre donne come me, e l’ho reso disponibile sul sito dell’Associazione italiana Parkinson proprio perché in quei momenti mi sentivo sola e non volevo che capitasse a qualcun altro. Per fortuna non ci sono state complicazioni e quando Angelo è finalmente arrivato ero davvero felice».

La chiusura per il Covid

Tre giorni dopo la sua nascita è iniziato il lockdown per la prima ondata della pandemia: «Così ho trascorso i primi mesi completamente da sola perché mia madre non poteva venire e il mio compagno che lavora nel settore sanitario era molto impegnato. Ho ricominciato a seguire le terapie farmacologiche ma nei primi mesi erano più leggere per darmi l’opportunità di poter allattare. Così gli effetti erano comunque limitati e mi sono trovata in difficoltà a vestire, lavare e abbottonare le tutine di Angelo. In quel momento ho dovuto davvero scontrarmi con le difficoltà causate dalla malattia, mi sono resa conto con asprezza di cosa comportasse per la mia vita. È stato un periodo molto più duro della gravidanza. Non sono mai stata appassionata di bambini, non avevo dimestichezza, non sapevo niente, e questo mi ha messo in difficoltà. Allo stesso tempo però non avevo nessuno che mi dicesse cosa fare, così ho seguito il mio istinto. Mio figlio ed io ci siamo lentamente adattati uno ai ritmi dell’altro, è stato bello nonostante i problemi e la fatica».

La foto di Diffidenti

Valentina ha accettato di farsi fotografare dal reporter bergamasco Giovanni Diffidenti per partecipare al progetto di sensibilizzazione «Non chiamatemi morbo», che sta girando l’Italia con la mostra «parlante», e accompagnata dal libro «Non chiamatemi morbo» (Contrasto) un volume made in Bergamo che racconta le storie di resistenza e di coraggio di persone con la malattia di Parkinson proprio per far crescere l’informazione e combattere i pregiudizi: «La mia storia – osserva Valentina – può essere un mezzo di sensibilizzazione, perché la nostra è una malattia poco conosciuta, non viene presa in considerazione per l’invalidità, non ha lo stesso riconoscimento e le agevolazioni concesse per altre malattie rare. Spesso, quindi, i malati si trovano da soli ad affrontare situazioni difficili e problemi “collaterali”. L’ho scoperto con chiarezza quando ho dovuto comunicare ad altri quale fosse la mia malattia, e osservando i loro volti confusi e spaventati ho riconosciuto lo stesso timore che avevo anch’io all’inizio, quando non sapevo nulla. Mi piacerebbe che tutti imparassero a superare stereotipi e luoghi comuni».

© RIPRODUZIONE RISERVATA