Lo studio di Bergamo e Yale mostra per la prima volta come il Covid attacca il fegato

La collaborazione tra l’Università di Yale e l’ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo ha permesso, per la prima volta, di analizzare e riprodurre il meccanismo patologico con cui il virus causa un danno del fegato. Per arrivare a questi risultati sono stati valutati i campioni istologici di fegato relativi a 43 pazienti deceduti all’ospedale Papa Giovanni di Bergamo nella primavera del 2020.

I risultati di questa dimostrazione scientifica sono stati ora pubblicati sulla rivista Journal of Hepatology, una delle più prestigiose riviste al mondo di gastroepatologia. La collaborazione tra i ricercatori della prestigiosa Università di Yale, New Haven, Cunnecticut (Usa) e l’ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo, ha permesso, per la prima volta, di analizzare e soprattutto riprodurre il meccanismo patologico con cui il virus causa un danno del fegato nei malati di Covid-19. Questo studio conferma il ruolo-chiave della citochina IL-6 e della endoteliopatia cioè l’infiammazione delle pareti dell’endotelio che riveste i vasi sanguigni, responsabile del danno epatico associato a forme gravi e mortali di Covid-19.

Il virus Sars-Cov-2 induce cioè le cellule dell’endotelio dei vasi sanguigni che irrorano il fegato a produrre una proteina chiamata interleuchina IL-6, che in situazioni normali agisce con funzione di regolazione dei processi immunitari. Quando la sua produzione è sregolata ed eccessiva può portare a stati infiammatori anomali. Nel caso del Covid-19, questa tempesta porta allo stato infiammatorio (endoteliopatia) e alla coagulazione del sangue all’interno dei vasi.

Per arrivare a questi risultati sono stati valutati i campioni istologici di fegato relativi a 43 pazienti deceduti all’ospedale di Bergamo nella primavera del 2020. Le autopsie con prelievo di materiale istologico erano state effettuate a Bergamo durante la prima ondata dal direttore del Dipartimento di Medicina di laboratorio Andrea Gianatti e dal collega anatomopatologo Aurelio Sonzogni. I dati biochimici ed umorali dei pazienti selezionati sono stati analizzati e valutati da Maria Grazia Alessio, Giulia Previtali e Michela Seghezzi della Medicina di Laboratorio – analisi chimico cliniche del Papa Giovanni XXIII. Si sono rivelate di importanza fondamentale le indagini radiologiche effettuate all’epoca del ricovero dall’Unità di Radiologia del Papa Giovanni. Il direttore Sandro Sironi, docente all’Università di Milano-Bicocca alla post Graduate School in Radiologia diagnostica, insieme ai radiologi Clarissa Valle e Pietro Bonaffini sono tra gli autori che hanno collaborato allo studio.

Si tratta al momento del primo studio mai pubblicato su modello animale che coinvolge il più grande campione numerico di tessuti umani provenienti da pazienti deceduti per infezione da Covid-19.

Uno dei più grandi studi clinici ad aver valutato il rapporto tra danno epatico e Sars-CoV-2 aveva rilevato che su 2.273 pazienti il 45% aveva un danno epatico lieve, il 21% moderato e il 6,4% grave. I pazienti con danno epatico acuto erano a maggior rischio di ricovero in terapia intensiva (69%), intubazione (65%), terapia renale sostitutiva (33%) e mortalità (42%). Il ruolo dell’infiammazione delle cellule endoteliali era già stato ipotizzato, ma nel caso del fegato non era mai stato dimostrato su tessuto.

Precedenti studi sul Covid-19 si erano focalizzati finora soprattutto sulla coagulopatia, cioè sull’aumento delle complicanze trombotiche e microvascolari generate dalla risposta infiammatoria del sistema immunitario e derivante dalla «tempesta di citochine» indotta dal virus Sars-CoV-2. Nessuno studio aveva analizzato direttamente il danno sui campioni di fegato correlandolo ai dati clinici.

Ora lo studio degli scienziati italiani e statunitensi torna a porre l’accento sul ruolo dell’endoteliopatia come principale causa di danno epatico rispetto alla coagulopatia, proprio perché sarebbe la causa di quest’ultima.

Questa conclusione suggerisce che l’identificazione precoce dell’endoteliopatia e le strategie terapeutiche per ridurne la accelerazione infiammatoria potrebbero migliorare il trattamento di malattia da Covid-19 grave. Lo studio conferma inoltre che l’IL-6 può essere più generalmente un potenziale bersaglio per la terapia mirata del Covid-19 anche perché il danno risulta essere ubiquitario, cioè diffuso nell’organismo, non limitato al solo polmone. È la strada già intrapresa da alcuni studi clinici, che si stanno concentrando sulla ricerca di farmaci efficaci come inibitori dell’IL-6.

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