Il fisico Battiston: a Bergamo Rt a 1,45
«Aumentato più che nel Bresciano»

Roberto Battiston: «Segnali preoccupanti di crescita già a inizio febbraio, ma non è stato fatto nulla». «Contro le varianti le sole mascherine non bastano»

I contagi in provincia di Bergamo stanno crescendo, in proporzione, più che nel Bresciano. Con l’Rt a 1,45, (anche se ieri Ats ha precisato che siamo a 1,4, n.d.r.) i numeri sono già da zona rossa e se le cose non cambieranno, nel giro di pochi giorni avremo circa il 50% di infetti in più rispetto solo a settimana scorsa». La fotografia scattata da Roberto Battiston, fisico delle particelle e docente all’Università di Trento, è preoccupante.

Con il diffondersi delle varianti, distanziamento e mascherine non bastano più: «Le prime avvisaglie si sono avute un mese fa – dice Battiston – ma non è stato fatto nulla per contenere il contagio e ora serve un lockdown duro di almeno un mese, altrimenti si rischia il collasso del sistema sanitario».

Da isola «quasi» felice, dopo il dramma della primavera scorsa, al rischio di una nuova zona rossa. Professor Battiston, cosa sta succedendo?

«Negli ultimi 6 giorni l’Rt a Bergamo è cresciuto moltissimo, più che a Brescia, perché sono aumentate in maniera considerevole le persone attualmente positive. Secondo i nostri calcoli, il 1° marzo la provincia di Bergamo aveva intorno ai 3.700 infetti attivi e giorno per giorno questo numero sta aumentando al ritmo del 6%. L’Rt non è altro che la fotografia di questa crescita».

Da cosa dipende?

«Bergamo e Brescia, nella seconda ondata, hanno avuto un numero di contagi significativamente più basso rispetto alla media regionale, e questo è noto. Per capirci: se la Bergamasca si fosse comportata come il resto della Lombardia, avrebbe avuto un picco, a novembre, di 18 mila infetti, ma ne ha avuti circa 4.600, vale a dire meno di un terzo. Però, mentre a Brescia tra novembre e dicembre la discesa si è attestata intorno al 40% (da un picco di circa 9 mila a 5 mila), a Bergamo nello stesso periodo gli infetti sono calati di oltre il 60%, scendendo sotto quota 2 mila. Ora, entrambe le province hanno mostrato una rapida crescita dell’Rt da Capodanno, ma siccome a Bergamo si partiva da numeri più contenuti, l’effetto di un Rt che si è alzato subito intorno a 1 è stato più contenuto rispetto a Brescia. Fino alla fine di gennaio la situazione è rimasta tranquilla, poi la tendenza è cambiata, fino a raggiungere i livelli più alti. Brescia mostra lo stesso andamento, ma partendo da un numero di infetti più alto, l’Rt è cresciuto di più, senza mai più scendere sotto a 1».

La vicinanza geografica con Brescia può essere un problema?

«Direi di sì. Bergamo in questi mesi è rimasta in mezzo, trascinata un po’ verso il basso da Milano, che ha raggiunto di nuovo un Rt pari a 1 da un paio di settimane, e un po’ verso l’alto da Brescia. Consideriamo che a Milano la discesa dei contagi fino a Capodanno è stata importante, dal picco di 65 mila a quasi a 18 mila».

La tendenza al rialzo è così preoccupante?

«Purtroppo è in atto un forte peggioramento. La stima che abbiamo sviluppato assieme ad Agenas (l’Agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali) per questa settimana su Bergamo valuta un aumento del 43% di persone positive, con un’incertezza che varia da un minimo del 28% a un massimo del 60%. Il 7 marzo Bergamo potrebbe ritrovarsi con 5 mila infetti attivi, pari al picco di novembre, e con un Rt superiore a 1,5. In questo non stiamo considerando le misure addizionali di contenimento appena approvate da Regione, in quanto troppo recenti».

Il criterio di chiudere paesi e province funziona?

«Sì, ma soltanto se queste chiusure sono tempestive. I numeri ci dicono che a Bergamo c’è stato un cambiamento già nella prima settimana di febbraio. Era un primo indizio, che si è confermato nella seconda e nella terza settimana del mese».

Si poteva fare qualcosa?

«Quando si ha un’avvisaglia del genere, si devono poter individuare uno o più focolai; ed era quello il momento di intervenire, facendo passare uno o più Comuni in zona rossa. Ma non si è fatto e si è andati avanti in zona gialla fino a settimana scorsa».

Ora alcuni Comuni sono in zona arancione rinforzata o in zona rossa. Ma chiuderli, lasciando la possibilità di uscire di casa per andare al lavoro, ha senso?

«No. Se i lavoratori continuano a muoversi tra province e Comuni di colore diverso, non ha alcun senso chiudere. Dobbiamo estirpare il virus com’è stato fatto a Codogno, anche perché queste varianti sono molto più contagiose. A settembre l’Rt in Italia era a 1.15, con i ristoranti aperti ma le scuole ancora chiuse. A ottobre il contagio è ripartito a razzo come adesso. Il Dpcm del 12 ottobre ha imposto l’obbligo delle mascherine in pubblico e la chiusura dei ristoranti alle 18. La prima di queste norme ha implicato un cambio di comportamento da parte di milioni di persone, e dopo 10 giorni ha invertito la crescita di Rt. Oggi la mascherina la portano tutti, assembramenti a parte, ma dobbiamo difenderci da un Rt che è balzato in alto a causa delle varianti».

Ci sta dicendo che le precauzioni che conosciamo non bastano più?

«Le mascherine sono importantissime, ma lavorano al 90, 95%, quelle chirurgiche probabilmente all’80%. Ripeto, queste protezioni sono fondamentali, ma lasciano una percentuale di non protezione che era sufficiente per convivere con la variante base, ma che è diventata ormai insufficiente per le altre che sono più aggressive».

Quali armi ci restano per far calare il contagio?

«Le zone rosse come sono state concepite finora non bastano più. Non abbiamo altre soluzioni, se non la vaccinazione, che però richiede molto tempo. Nell’immediato, l’unico strumento che abbiamo è un lockdown duro, tempestivo e limitato geograficamente, tenendo conto che prima si chiude qualcosa, meno si chiude. L’incidenza delle varianti sull’Rt è del 40-50%; in altre parole, è come se avessimo le mascherine coi buchi: basta meno quantità di virus per far passare il contagio».

Quanto tempo servirebbe per raffreddare i contagi?

«Il mese è l’unità di base, i lockdown di una settimana sono inefficaci, ma più si aspetta, più si rende necessaria la chiusura su più vasta scala e per tempi più lunghi».

L’arrivo dei vaccini già si nota?

«Sì, i vaccini ci stanno aiutando davvero, se non li avessimo la situazione sarebbe molto peggiore. Adesso serve però una comprensione del problema che ci permetta di agire in modo rapido e su zone limitate usando bene i dati che abbiamo e facendo emergere quelli che non sono ancora disponibili; penso ai Comuni. Non ci è rimasto molto altro da fare se vogliamo contenere i danni».

Giusto, dunque, lasciare la decisione agli enti locali?

«I governatori, col passare del tempo, sono diventati molto più prudenti, anche del governo. I Comuni e le Regioni hanno la possibilità di rafforzare le limitazioni e possono decidere, come sta già accadendo, di chiudere un paese o una provincia, se lo ritengono giusto sulla base dei dati locali. E questo può avvenire più rapidamente rispetto a un intervento del governo che in questi casi arriva sempre in ritardo di due settimane, perché la macchina da gestire è più complessa».

I commercianti hanno però sempre chiesto un certo preavviso, prima del cambio di colore. Un’istanza che il governo ha accolto.

«In quei 3-4 giorni il virus non va in ferie, ma continua a lavorare con il motore al massimo e quel ritardo rischiamo di pagarlo fino a 3-4 volte in durata. Dobbiamo capire che con le varianti, è come se fossimo passati ad affrontare invece che una squadra di Serie C a una di Serie A, che tira in porta di più e più forte».

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