Silvio Calvi, il coraggio di ricominciare
«Un nuovo fegato, la mia vetta più alta»

L’ex presidente del Cai Silvio Calvi è tornato tra le vette dopo il trapianto di fegato, nel ricordo di Luisa Savoldelli. «Sono passati 13 anni, e sono felice», racconta. «Quando uomini e montagne si incontrano – scrive William Blake – grandi cose accadono».

Nei suoi 74 anni Silvio Calvi, architetto e ingegnere di Bergamo, ha scalato tante montagne, ma la vetta più alta per lui è stata quella, simbolica, del trapianto di fegato, una cima speciale. «Sono passati 13 anni, e sono felice», racconta. «Quando uomini e montagne si incontrano – scrive William Blake – grandi cose accadono»: questo incontro nella vita di Silvio si è realizzato in modi diversi, negli ultimi anni anche attraverso il progetto «A spasso con Luisa», nato per aiutare altri trapiantati.

Non c’è un modo semplice per affrontare la malattia, soprattutto quando si presenta all’improvviso, com’è accaduto a Silvio Calvi: «Mi sono accorto – racconta – che la mia vista peggiorava e mi sono rivolto a un oculista. Mi ha diagnosticato le cataratte, una patologia un po’ insolita a soli 58 anni, così mi ha obbligato a sottopormi a un check-up completo prima di fissare l’intervento». Dopo le analisi Calvi si è ritrovato nello studio del medico internista a parlare degli esiti: «Mi ha comunicato che il mio fegato era ormai irrecuperabile, ma che non c’era traccia di tumori. La cirrosi da epatite era avanzata galoppando, senza rendersi evidente. Ormai a quel punto l’unica possibilità era il trapianto, e ho deciso subito di accoglierla».

Il suo primo pensiero è stato per la sua famiglia, la moglie e i due figli. «All’uscita dallo studio mi ha chiamato un’amica medico e ho esitato: dovevo comunicarle la notizia oppure no? Ho deciso di essere sincero, è stato difficile, ma ci sono riuscito. Così sono tornato a casa e l’ho comunicato ai miei, nel modo più tranquillo possibile. Avevano più paura loro di me, io non mi sentivo malato e non volevo essere trattato come tale». Silvio Calvi ha scelto di continuare la sua attività professionale e di non rinunciare alle sue passioni: «Conducevo una vita intensa, sia dal punto di vista professionale sia personale e ho voluto proseguirla. Certamente ho rallentato un po’ il ritmo, ho dovuto adattarmi a ciò che il fisico mi permetteva di fare».

È stato presidente del Cai a Bergamo e poi attivo nell’Associazione mondiale di alpinismo (l’Uiaa) e fino a poco tempo fa nell’associazione «Amici del museo archeologico», ha viaggiato molto. Ha trascorso l’estate successiva alla diagnosi tra il Pakistan e la Georgia, non certo vicino a un ospedale: «L’attesa è stata lunga, perché il mio gruppo sanguigno è 0 negativo, piuttosto raro, e non è stato semplice individuare un organo compatibile. Nel frattempo ho continuato la vita di sempre, compresi i viaggi, sono stato in Caucaso più volte. Non sono un paziente standard. Ho sentito il peso degli ultimi mesi, quando sono diventato il primo della lista, con l’obbligo di restare a due ore di distanza dall’ospedale. Le mie condizioni peggioravano e di certo diminuivano le mie risorse».

La chiamata per il trapianto è arrivata una domenica mattina alle 8, era il 29 gennaio 2006. L’intervento è durato otto ore, e il medico ha detto ai suoi parenti: «L’abbiamo preso per i capelli». Silvio Calvi aveva lasciato istruzioni in studio a un suo collaboratore, teneva già da tempo nel computer il file con una lettera da mandare alla sua mailing list per comunicare che era stato sottoposto a un trapianto e che era andato tutto bene. «Ho preferito essere ottimista, tenendo viva la speranza e allontanando le preoccupazioni. Quando mi hanno portato in rianimazione dopo l’intervento è incominciata la strada in discesa, un po’ ripida all’inizio, come scendendo da una cima appena salita». Ci sono stati momenti di difficoltà, la ripresa è stata lenta, ma Silvio Calvi ha sempre reagito con energia: «Dovevo consegnare una relazione tecnica venti giorni dopo l’intervento e ho chiesto alla mia assistente di portarmi il computer in ospedale. Sapevo che dovevo consegnarla e l’ho fatto, anche se ero ancora debole. È stata una sfida con me stesso, una lotta con la mia condizione di fragilità. Ho attraversato tutte le fasi della convalescenza cercando sempre di prendere le situazioni di petto».

Nel lungo soggiorno in ospedale ha stretto legami di amicizia con gli altri malati: «Quel periodo – spiega – mi è servito a ricostruire me stesso prima di tutto, riprendere i contatti con il mio fisico, con le mani che tremano, con la mente che ha bisogno di spazi di riposo». Ha dovuto fare i conti con i suoi fantasmi: «Mi chiedevo se il nuovo fegato avrebbe funzionato, se l’epatite sarebbe tornata. La paura doveva essere identificata e fermata. Occorreva tornare nei campi già arati e seminare». È arrivata l’ora di tornare a casa e riprendere le attività quotidiane: «La capacità di calcolo, di programmare la giornata, di curarsi l’aspetto». Silvio Calvi ha incominciato a riprendere le forze, e con esse è tornato il desiderio di dedicarsi alle sue passioni: «Sono stato prudente, mai inattivo. Dopo cinque mesi ho detto ai medici che sarei tornato nel Caucaso, loro me l’hanno sconsigliato, ma prima di partire mi sono preoccupato di avere dei punti di riferimento: uno specialista e un ospedale a cui rivolgermi in caso di bisogno. Fortunatamente poi è andato tutto bene. Col tempo ho ricominciato ad andare in montagna e a fare escursioni anche da solo».

Si è messo in contatto con l’associazione Amici del trapianto di fegato di Bergamo e ha incominciato a pensare a un’attività, che aiutasse altri trapiantati come lui a rimettersi in gioco: «Ho incontrato Luisa Savoldelli, anche lei appassionata di montagna, trapiantata di fegato per due volte. Abbiamo fatto insieme gite impegnative, siamo andati per esempio ai Laghi Gemelli, e quasi i nostri cari “sani” che ci accompagnavano facevano più fatica di noi. Poi lei purtroppo è stata male, ha dovuto affrontare il terzo trapianto ma non l’ha superato, un’infezione se l’è portata via a 51 anni. Avevamo iniziato insieme a programmare un’attività di passeggiate in montagna, perciò quando alla fine l’abbiamo avviata ci è sembrato naturale chiamare questa iniziativa “A spasso con Luisa”. È un bel modo per ricordarla e la sua famiglia continua a seguirci da vicino, ed è sempre presente al primo appuntamento della stagione che si svolge sul Monte Farno, luogo a lei caro». Passeggiate in montagna per trapiantati: è una bella sfida, sia dal punto di vista culturale sia pratico.

«La prima volta avevamo un po’ paura, eravamo una quindicina e non sapevamo che cosa aspettarci». L’organizzazione era comunque attenta, cercando di non lasciare nulla al caso: «Abbiamo il supporto del reparto di Medicina dello Sport dell’ospedale “Papa Giovanni XXIII” di Bergamo. I partecipanti vengono sottoposti a una visita medica preventiva e se emerge qualche problema cardiaco si fanno approfondimenti scrupolosi. Ogni ciclo di escursioni è seguito da una visita di controllo finale che mostra anche tutti i vantaggi di quest’attività: ci sono guadagni effettivi nella capacità polmonare, nella frequenza cardiaca, nella massa grassa, pari al 5-10% rispetto alla situazione di partenza. Dopo cinque anni i dati raccolti sono incoraggianti. Con il loro entusiasmo i partecipanti ci spingono a proseguire».

Gli itinerari di «A spasso con Luisa» vengono scelti con attenzione, in modo che siano accessibili a tutti, e per quanto semplici si trasformano spesso in esperienze emozionanti: «È un’occasione per stringere nuove amicizie, per superare la paura di mettersi alla prova e la tentazione di richiudersi in se stessi. Ogni anno entrano nel gruppo persone nuove, quest’anno in tutto siamo una ventina, e la prima uscita viene di solito dedicata a conoscersi e a scambiarsi notizie su interventi e terapie». Poi però questi discorsi lasciano spazio a chiacchiere più allegre. «Ognuno cammina con il suo passo, senza forzare, e si può portare al massimo un accompagnatore, perché questa esperienza è dedicata soprattutto ai trapiantati, ed è organizzata con tanti piccoli accorgimenti dedicati a loro. È un’attività unica, nata dal basso, dal desiderio e dall’intraprendenza dei pazienti, anche se è sorvegliata a vista dai medici ed è promossa dall’Azienda ospedaliera “Papa Giovanni XXIII” con la sezione di Bergamo del Club alpino italiano e l’associazione Amici del trapianto di fegato onlus».

Silvio Calvi continua a essere impegnato in mille progetti: «Mi sto occupando per esempio del recupero dell’antica torre Kaldani di Adishi, un piccolo paese di montagna in Georgia. Ho incontrato questi luoghi per caso, anni fa, e me ne sono innamorato. C’era già stato Vittorio Sella, esploratore e fotografo nipote di Quintino Sella fondatore del Cai, riportandone immagini bellissime. Nei miei viaggi ho incontrato monumenti affascinanti che rischiavano di scomparire per incuria e per mancanza di fondi e ho sentito il desiderio di impegnarmi come potevo nella tutela di questo patrimonio artistico e culturale». Nel 2015 Calvi ha promosso anche il recupero del vecchio rifugio Laghi Gemelli, in alta Val Brembana, incendiato dai militi fascisti nell’inverno 1944-45, perché rifugio di partigiani. Si è impegnato a creare una rete di volontari coinvolgendo Cai, Anpi, appassionati della montagna e della Resistenza: insieme in due anni hanno riportato alla luce un pezzo di storia bergamasca.

Ha partecipato a numerose «missioni tecniche» nelle aree terremotate in Italia, coinvolgendo anche gli studenti. È fra l’altro vicepresidente della federazione internazionale dello Skyrunning (corsa in alta quota): «Partecipo agli incontri, tengo conferenze, ma gli atleti li seguo in funivia. Con gli anni ho dovuto rinunciare a qualcosa, ma l’importante è che sia una decrescita felice. L’esperienza del trapianto mi ha insegnato a non arrendermi. Bisogna guardare oltre i problemi, allargare gli orizzonti e pensare alla vita da vivere».

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