«Soddisfare i bisogni non basta
Serve la conversione di cuore e mente»

Nel giorno della festa del patrono della città, il Vescovo di Bergamo monsignor Francesco Beschi riflette sul senso della compassione come virtù civile per un’intera comunità. Resteranno «esemplari» le scelte e i comportamenti di chi ha testimoniato questa virtù al tempo del Covid.

Se, nelle forme esteriori, sarà più dimessa che negli anni passati (per il doveroso rispetto che va garantito alle norme anti Covid), non per questo la festa del patrono che Bergamo si appresta a vivere oggi deve passare in secondo piano. Anzi, dopo mesi di lutti, sofferenze, fatiche, aprire il cuore alla speranza nel segno di Sant’Alessandro e di una comunità «ritrovata» e pronta a ripartire, seppure avvolta in un clima di profonda incertezza, farà bene a ciascuno di noi. Quell’uomo issato sulla cupola della Cattedrale, che la tradizione vuole essere un soldato romano della Legione Tebana diventato martire per non aver rinnegato la propria fede cristiana, non è un semplice orpello architettonico, ma un simbolo in cui i bergamaschi, credenti e non, si identificano fin dall’antichità.

Quell’uomo ritto e lo sguardo fiero, con il vessillo in mano, testimonia le virtù che noi tutti, nel corso dei secoli, abbiamo fatto nostre: libertà di pensiero, fortezza d’animo, lealtà e solidarietà nei confronti del prossimo. Rappresentano, in sostanza, tutte quelle caratteristiche che, fuse tra loro, plasmano un uomo autentico, giusto, capace di carità e di compassione, di partecipare cioè alle sofferenze altrui. E non c’è bisogno di rispolverare un passato ormai lontano per rendersene conto, basta semplicemente volgere lo sguardo alle nostre spalle, a poche settimane fa, quando quelle stesse virtù sono apparse chiare agli occhi del mondo, facendo di noi bergamaschi un simbolo da imitare e di cui avere grande rispetto. E pur vero, però, che continuare a dare per scontato il nostro essere «così» finisca col non alimentare più le nostre radici, lasciando ai più giovani il senso di un «dovere» più che di un «essere». Una sorta di pericolo che avverte anche il vescovo di Bergamo, monsignor Francesco Beschi, e che esplicita nell’intervista che segue.

«Una delle caratteristiche della comunità bergamasca – dice il vescovo Francesco – è proprio la concretezza e l’organizzazione di risposte solidali ai più diversi bisogni. (…) Ciò che avverto sempre più necessario è il passaggio dalla risposta al bisogno alla conversione del cuore e della mente».

Il tema scelto quest’anno per celebrare il nostro patrono è la compassione. In che senso questa attitudine, di stampo biblico, può diventare anche una «virtù civile» per un’intera comunità? Significa che la grande tradizione religiosa cristiana ha ancora qualcosa da dire alla città?

«Sono convinto che la storia della comunità cristiana bergamasca, la memoria che vogliamo custodire e coltivare come fonte d’ispirazione delle scelte da compiere in questo tempo, la testimonianza e l’incarnazione del messaggio evangelico, siano ancora significativi nella quotidiana edificazione della città di tutti: spero che la società bergamasca, nel suo insieme, accolga e riconosca cordialmente questo contributo. È pur vero che non possiamo dar nulla per scontato e presumere che questo avvenga per consuetudine: la comunità cristiana e i cristiani singolarmente, avvertono l’esigenza di alimentare una rinnovata credibilità e significatività, soprattutto nei confronti delle giovani generazioni. Nello stesso tempo, confidiamo che questa presenza non sia volutamente emarginata e neppure sbrigativamente utilizzata come supplenza a carenze sociali, oppure come simbolo di un’identità e di un’appartenenza che contraddice il Vangelo, nel momento stesso in cui viene affermata. Sotto questo profilo la “visceralità” biblica della compassione divina e del sentimento evangelico, può e deve diventare virtù e dunque scelta, mentalità, criterio di condivisione della prova, della sofferenza e del dolore, che non si limita all’emozione, ma diventa sentimento e dunque comportamento personale e sociale, capace di vedere, riconoscere e avvertire come propria, la debolezza e la fatica dolorosa del prossimo e di sostenerla non solo con i mezzi necessari, ma con un altrettanto necessaria visione della vita e della dignità di ogni persona umana. Esemplari resteranno nel tempo e nel vasto orizzonte del mondo contemporaneo, le scelte e i comportamenti di coloro che nei giorni dell’uragano del contagio hanno testimoniato nella sua integralità questa virtù, a cominciare da coloro che lavorano nei nostri ospedali e nelle case di riposo, per giungere a tutti quelli che hanno sostenuto i servizi essenziali e hanno contribuito a contrastare il senso dell’abbandono e della solitudine sempre in agguato».

Cosa ha imparato la Chiesa dalla lunga sospensione religiosa cui è stata costretta? Da questa pandemia è uscito un cristianesimo più convinto e coraggioso? Molti hanno stigmatizzato un presunto silenzio della Chiesa. Cosa ne pensa un Vescovo che, come lei, durante la pandemia, ha dato un volto e una voce presente e autorevole alla Chiesa bergamasca, porgendo sempre alla comunità una sorta di carezza giovannea?

«La prova a cui tutti siamo stati sottoposti è stata inedita, imponente e molto dolorosa. Anche la vita della comunità cristiana ne è stata segnata in maniera sorprendente. In pochi giorni, abbiamo visto letteralmente scomparire i gesti più caratteristici di questa vita: i sacramenti, i segni della prossimità, le iniziative educative e formative, gli incontri distintivi dell’esperienza comunitaria. Abbiamo avvertito un improvviso silenzio della Chiesa, quasi fosse stata ammutolita dalla prova: non lo ritengo un fatto negativo. Anche la Chiesa, come tutti, è stata assalita dal contagio e dalla violenza e velocità con cui si è manifestato nella nostra terra e si è trovata senza parole e senza i suoi gesti peculiari. Mi sarebbe sembrato per lo meno strano che, nella difficoltà di tutti a individuare risposte, la Chiesa ne avesse da sfornare come fossero preconfezionate. Il silenzio, anche con l’inquietudine e l’attesa che ha suscitato, è stato necessario perché le parole da dire non fossero banali e i gesti da compiere trovassero una loro pertinenza. Così è stato. Ho avvertito una forza spirituale crescente che si è manifestata in tante forme inedite di preghiera e di carità, connotate da un profondo sentimento di condivisione e da una capacità comunicativa, sostenuta dai mezzi nuovi e tradizionali. Io stesso, inizialmente incerto, ho percorso questa via, sempre più consapevole di come potesse rappresentare un servizio alla speranza di tutti. Non so proprio se da questa prova ne usciremo migliori, anche come Chiesa. So che l’incertezza è un connotato che si accompagna alla crescente complessità della nostra convivenza sociale e della vita ecclesiale: nella pluralità delle visioni e delle scelte di valore avverto la necessità di resistere e lottare contro forme egemoniche di pensiero e di potere e insieme di convenire su ciò che più profondamente salvaguarda la dignità di ogni persona a cominciare da quella più debole e promuove la sensatezza e la necessità, non solo organizzativa, della dimensione comunitaria della vita sociale. La comunità cristiana, illuminata dal Vangelo e rigenerata dalla Grazia, è chiamata a questa testimonianza e a questo servizio».

Qualcun altro ha preso a prestito l’immagine delle chiese vuote della pandemie per illustrare il destino del cristianesimo. Non potrebbe, al contrario, rappresentare una chance?

«Nella Lettera che consegnerò alle comunità in questi giorni, indico alcuni criteri a cui ispirarsi. Il primo è quello di non dar nulla per scontato. L’espressione può sembrare eccessiva, ma riflette ciò che abbiamo sperimentato nella prova. Quando abbiamo ripreso le celebrazioni della Messa con la comunità, alcuni mi hanno fatto osservare che, per le ragioni più diverse, la gente non è tornata a parteciparvi, come forse ci aspettavamo. La mia risposta è stata proprio questa: abbiamo dato ancora per scontato, in questo tempo di secolarizzazione e comunque in una terra come quella bergamasca, che la fede e i suoi gesti siano patrimonio diffuso e solido. Non è esattamente così. Nei giorni oscuri, abbiamo avvertito il sorgere di una domanda, di un’attesa, di una ricerca approdata spesso a parole e gesti religiosi molto semplici ed essenziali. Certamente non è stata solo la paura ad alimentarli, ma la percezione che l’intensità della vita e l’apparente superficialità delle abitudini, non riesce a mortificare la dimensione della profondità dello spessore umano e la possibilità, a volte interiormente e delicatamente consolante, dell’incontro con Dio. La fede è innanzi tutto dono e quindi scelta: coloro che credono sono chiamati ad una testimonianza tanto più significativa, quanto più posta lì dove la vita, ogni giorno e in ogni condizione, accade. Questa è la via che vorremmo percorrere».

La compassione è un volto esplicito della carità. Le indagini avviate dalla magistratura sul tema dell’accoglienza ai migranti faranno il loro corso. Nel frattempo, però, le chiedo: può una Chiesa non esercitare la carità?

«La risposta è nello stesso tempo semplice e amplissima. Semplice perché l’esperienza cristiana scaturisce dal riconoscimento e dalla fede in Dio che è Amore e si manifesta nel compimento quotidiano del comandamento dell’amore. Amplissima, perché veramente infinita è l’esperienza dell’amore. L’amore, in tutte le sue modalità, è il connotato della fede dei cristiani. Prescindere dall’amore è contraddire quella fede che si ritiene di professare. Ho apprezzato come in queste settimane, il giornale ha rappresentato la virtù e l’esercizio della carità da parte dei cristiani. Mi permetto di ricordare che pochi anni fa, io stesso ho scritto una lettera dal titolo “Donne e uomini capaci di carità”. L’esigenza che ho tentato di sottolineare, scaturisce da una considerazione molto concreta: le opere di carità e solidarietà, della Chiesa e di una miriade di associazioni e istituzioni, sono veramente impressionanti. Una delle caratteristiche della comunità bergamasca è proprio la concretezza e l’organizzazione di risposte solidali ai più diversi bisogni. Lo abbiamo constatato anche durante la prova della pandemia. Ciò che avverto sempre più necessario è il passaggio dalla risposta al bisogno alla conversione del cuore e della mente. Nel Vangelo non esiste il comando “sciogliete le righe” come dopo una battaglia o nel momento in cui si è superata un’emergenza. La carità, che si manifesta nelle opere, è un modo di essere e di esistere. In questo senso, il cristiano non esclude alcuno dal suo gesto solidale, ma ispira ogni sua azione e ogni suo incontro a questo criterio di vita. In questo orizzonte si colloca anche l’accoglienza delle persone che giungono nel nostro Paese, regolata dai principi della giustizia, della saggezza e inevitabilmente della solidarietà. Mi auguro che questi criteri emergano con chiarezza dal procedimento giudiziario relativo ad alcuni comportamenti di persone che hanno testimoniato per anni e davanti a tutti la loro dedizione».

La sua prossima Lettera pastorale avrà come titolo «Servire la vita dove la vita accade». Cosa significa? Sembra un manifesto perfetto anche per la politica della nostra società.

«Non so se possa essere un manifesto per la politica: vorrei fosse un criterio che ispira una revisione della pastorale della nostra Diocesi. A partire dalla prova della pandemia, siamo diventati ancor più consapevoli che la vita e la testimonianza della comunità cristiana assumono significato e valore nel momento in cui riescono a intrecciarsi con le esperienze e i vissuti di ciascuno e di tutti. Il tentativo che ci proponiamo è quello di superare le forme di autoreferenzialità continuamente in agguato e frequentemente giustificate con motivi che poco hanno a che fare con il Vangelo e il suo annuncio».

Un’ultima domanda. C’è qualcosa che la Chiesa di Bergamo può imparare dalla sua città?

«Durante un pellegrinaggio a piedi con i giovani, mi hanno regalato una maglietta con il motto “Barcollo, ma non mollo”, traduzione del diffuso “Mòla mia”. Ma se questo può apparire un po’ scontato e incomprensivo di coloro che proprio non ce la fanno più, credo che dalla nostra cara città possiamo e dobbiamo imparare a non fermarci alle apparenze e andare al sodo o, se si vuole, all’essenziale».

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