Tamponi, la carica virale cresce
«Fondamentale sequenziare il virus»

L’Istituto Mario Negri ha messo a punto uno studio sui test. Benigni: «Importante capire se tutti i positivi siano infettivi».

La carica virale presente nei tamponi positivi al Covid è tornata a crescere. La causa, probabilmente, è da ricercare nelle varianti del virus che, secondo medici e scienziati, tra una ventina di giorni potrebbero essere addirittura prevalenti rispetto alla forma originaria del Coronavirus, arrivata in Italia un anno fa. Tanti laboratori si stanno attrezzando per il sequenziamento dei tamponi, una procedura più lunga e complessa, che però consente di capire in che modo (e soprattutto dove) si stanno diffondendo le varianti.

Tra i primi in Italia a studiare in maniera più approfondita i tamponi positivi, i ricercatori dell’Istituto Mario Negri hanno condotto nei mesi scorsi uno studio che ha dato il là alla qualifica dei tamponi, partendo dal presupposto che non tutti i test sono positivi in egual misura. Un’evidenza data ormai per assodata, grazie al consolidamento dei risultati di laboratorio, alla quale gli studiosi del Mario Negri sono arrivati dopo un lavoro di ricerca durato circa tre mesi.

«Abbiamo iniziato a studiare i tamponi perché vedevamo persone che, nonostante fossero guarite da tempo, avevano sempre il tampone positivo – spiega Ariela Benigni, Segretario scientifico e coordinatrice delle ricerche dell’Istituto Mario Negri –. Abbiamo quindi messo a punto questo test e abbiamo notato che man mano ci si allontana dalla fase acuta della malattia, la carica virale si riduce. Ma non solo: abbiamo capito anche che non tutti i tamponi sono uguali. È importante quindi avere una qualifica di questi test per capire se i soggetti con tamponi positivi siano davvero infettivi».

Un passaggio fondamentale per intercettare e provare a limitare la diffusione delle varianti. «Nel periodo in cui abbiamo condotto la ricerca – prosegue Ariela Benigni – le varianti erano poco diffuse. Tuttavia questo studio ci ha permesso di capire che esiste anche un livello di positività oltre il quale la tipizzazione dovrebbe essere fatta assolutamente».

La procedura utilizzata per analizzare il tampone si chiama Pcr (reazione a catena della polimerasi) e si basa su più cicli di amplificazione della componente virale, necessari a produrre una quantità rilevabile di Rna del virus, definito con il valore Ct. Più i Ct sono bassi più virus è contenuto nel tampone. Il test messo a punto al Mario Negri consiste nel mettere a contatto il tampone con cellule coltivate in laboratorio e osservare se la quantità di virus contenuta nel tampone ha un effetto citopatico, cioè è in grado di farle morire. Il limite di questa operazione è che ha bisogno di tempo per produrre risultati: «Il test che abbiamo messo a punto è impegnativo, ragion per cui non può essere eseguito su larga scala – spiega Benigni – l’esito arriva dopo tre giorni. Parliamo di un test di ricerca che non può essere esteso a tutta la popolazione, altrimenti si rischierebbe di arrestare il sistema. Però è stato utile per capire che i tamponi positivi hanno una carica virale diversa e che al di sotto di una certa soglia di Ct l’individuo infetto è contagioso. Questa soglia è stata ora considerata un valore per procedere alla tipizzazione del tampone per capire se la positività sia dovuta alla presenza di una variante».

Oggi la partita si gioca proprio sull’individuazione delle varianti, un’operazione che sempre più laboratori (compreso il Mario Negri) si stanno attrezzando a mettere in campo: «È importante sia da un punto di vista epidemiologico – conclude Benigni – che per individuare eventuali cluster e prendere misure di contenimento per limitare la diffusione del virus».

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