Andrea Moro e Dante: «Nessuna lingua superiore alle altre»

L’intervista Il linguista Andrea Moro mercoledì 27 aprile in Santa Maria Maggiore per la rassegna «La cura della parola». «Se Dante fosse stato ascoltato, l’umanità si sarebbe risparmiata il delirio della purezza della razza ariana».

«Pietramala è una città immensa, e patria della maggior parte dei figli di Adamo. Perché chiunque ragiona in modo così osceno (obscene rationis est) da credere che il posto dove è nato sia il più gradevole sotto il sole, costui ritiene anche il proprio volgare, cioè la lingua materna, al di sopra di tutti gli altri». È con riferimento al «De vulgari» dantesco (I vi) che Andrea Moro, linguista di rilievo internazionale, ordinario di Linguistica generale e Rettore Vicario presso la Scuola Superiore Universitaria Iuss di Pavia, ha intitolato il suo intervento di mercoledì 27 aprile, ore 20,45, nella Basilica di Santa Maria Maggiore: «Il pensiero osceno: Dante e la pretesa della lingua perfetta».

L’incontro è il secondo del ciclo dedicato a «La cura della parola», promosso da Fondazione Mia e curato da Corrado Benigni, che mercoledì scorso aveva ospitato uno dei più valenti scrittori italiani: Alessandro Piperno.

Professor Moro, Dante da una parte scrive che è «osceno» presumere che la lingua del proprio luogo natio sia da anteporre a tutte le altre. Dall’altra, però, spende gran parte del trattato alla ricerca del volgare illustre, aulico, curiale, cardinale. Una lingua, in qualche modo, «superiore». E scarta tutti i volgari italiani causa la bassezza, cacofonia, ignobiltà di diverse loro espressioni, o l’esistenza di componimenti «a gabbo» che li riguardano. Da una parte sembra «democratico» ed «ecumenico», dall’altra spietatamente, forse frettolosamente selettivo, labaro di aristocraticismo linguistico.

«Non c’è contraddizione: Dante mette in guardia dall’innamoramento linguistico, che ritiene “osceno”: lo fa citando come scherno la città di Pietramala, un borgo piccolissimo dove però la gente pensava di essere al centro del mondo. È proprio da qui che sono partito con il mio romanzo (“Il segreto di Pietramala”, La Nave di Teseo) per cercare di illustrare la rivoluzione della linguistica moderna. Se Dante fosse stato ascoltato, l’umanità si sarebbe risparmiata il delirio della purezza della razza ariana che, non dimentichiamolo, nasce dalla linguistica ottocentesca. Niente vieta che Dante cerchi una lingua funzionale ad una realtà politica specifica. Non sappiamo però quali siano state le sue conclusioni perché come sanno tutti il suo trattato è incompiuto».

Come poteva Dante ritenere il latino una «gramatica», una lingua artificiale, creata a mo’ di esperanto per consentire la comunicazione fra dotti?

«La sua deduzione, ovviamente sbagliata, era però coerente con l’idea che le lingue naturali, i volgari cioè, si apprendono spontaneamente: né il latino né il greco, per quanto Dante potesse saperne, erano appresi spontaneamente. Occorreva tempo e sforzo: in questo senso a lui dovevano apparire artificiali».

Come funziona quella che Lei chiama la «mente staminale» dei bambini? Perché «selezionare e non costruire» è il «segreto» del loro apprendimento «spontaneo» del linguaggio?

«Per secoli si è creduto che l’apprendimento del linguaggio consistesse nell’accumulare progressivamente strutture grammaticali a partire da un cervello vuoto, dalla cosiddetta “tabula rasa”. Oggi invece ci sono prove teoriche e sperimentali che avviene esattamente il contrario: nasciamo con un cervello che contiene tutte le grammatiche possibili e l’interazione con gli altri ci fa selezionare solo quella compatibile coi dati. Si apprende selezionando, non costruendo».

È vero che i bambini possono «agevolmente» apprendere fino a sei lingue? Come mai lo stesso non vale per un adulto e, tanto meno, per un anziano?

«In linea puramente teorica non esiste limite per i bambini: ne possono imparare tante quanti sono i gruppi di bambini che ne parlano una diversa e con i quali essi giocano. Per questioni evidenti si finisce per ridurre a pochissime, di solito non più di una o due; ma, se ad esempio si includono i dialetti, che sono tutti grammaticalmente lingue, allora saperne tre non è così insolito. Non si sa come mai questa capacità decada. Esseri umani che come bambini apprendano spontaneamente sempre nuove grammatiche si possono solo immaginare».

Che analogie, che corrispondenze ci sono fra i nostri processi biologici e il sistema di apprendimento delle lingue?

«Ce ne sono tantissime. Una stupefacente riguarda il sistema immunitario. Niels Jerne notò che l’idea di un apprendimento per selezione sulla base di informazione sovrabbondante faceva tornare i conti con molti degli enigmi che riguardano la maturazione del sistema immunitario. Fece proprio menzione diretta di Noam Chomsky che per primo propose il modello selettivo. Per questa idea ricevette il premio Nobel per la medicina o chirurgia negli anni ’80».

Lei ha parlato di «aggancio delle strutture grammaticali alle strutture neurobiologiche del cervello, aggancio decisamente ancora incompleto ma per la prima volta non solo concepibile ma anche ragionevolmente dimostrabile». Il tema è del tutto affascinante. Potrebbe illustrarlo, in sintesi e con parole semplici?

«La teoria dell’apprendimento per selezione è stata proposta confrontando da una parte le grammatiche delle lingue e dall’altra i tempi di apprendimento dei bambini e gli errori che fanno. Si è visto che le lingue umane non variano indefinitamente. Esistono, per così dire, dei “confini di Babele” che limitano le variazioni: tutte le lingue esistite, esistenti e quelle del futuro stanno in questo recinto. Con l’avvento delle neuroimmagini, si è riusciti a provare che le lingue impossibili, quelle che stanno fuori dal recinto dei confini di Babele, non stanno fuori in virtù di una convenzione culturale di natura arbitraria, ma sono condizionate dall’architettura neurobiologica del cervello. Si può sintetizzare dicendo che la carne si è fatta logos, capovolgendo la visione tradizionale».

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