Il sogno di Angelina e il potere della musica che cambia - Le foto

IL COMMENTO. Il sogno si è avverato: la piccola Angelina Mango ha trionfato sul palco di Sanremo. La sua “Noia” crepitante e volteggiante ha convinto critica e pubblico.

La sera prima aveva interpretato una canzone del padre scomparso nel 2014 regalando uno dei momenti più emozionanti del Festival, un dialogo con l’infinito che si corona con questo importante riconoscimento. Di sicuro non l’ultimo nella carriera di Angelina.

Si archivia così l’edizione numero 74 della gara canora più seguita d’Italia. Un record di ascolti, un carico di musica, un tripudio di messaggi importanti e qualche polemica per dare pepe alle conversazioni. Ma Sanremo chi l’ha vinto davvero? Amadeus, non c’è dubbio. L’infaticabile direttore artistico, nel suo viaggio quinquennale al timone del Festival, ha fatto crescere e soprattutto trasformato, una manifestazione bisognosa di una ricollocazione nel terzo millennio.

La trovata pare il classico uovo di Colombo: Amadeus ha aperto le porte dell’Ariston per far entrare la musica che stava ai margini, che circolava sottotraccia, fuori dai radar del mainstream. Detto così sembra facile, ma ridefinire meccanismi consolidati e circuiti se non viziosi, viziati, non è cosa facile.

A Sanremo in questi anni di conduzione di Amadeus sono arrivati stili diversi, urbani, meticci. Voci giovani, acerbe, ma sincere e cariche di energia. Personalità non inquadrate nello show business, gente che ha trovato nel canto uno sfogo per sfuggire al peggio, ragazzi e ragazze cresciuti nella competizione, abituati ad avere le telecamere addosso.

Il risultato è nelle orecchie di tutti: la maggioranza delle sonorità proposte dai concorrenti sono cambiate. Le canzoni in formato tradizionale – melodia e ritornello – sono diminuite per lasciare spazio ai veloci cambi di ritmo, parlati sussurrati e rapidi che esplodono in vibranti declamazioni.

I testi inoltre non sono esattamente immediati: sono storie raccontate a sprazzi, immagini ritagliate a francobollo e intime sensazioni, inanellate come dei post che scorrono in verticale sullo schermo di un telefonino. Roba solo da millennials? Sì e no.

Mi scuso subito se i paragoni sembreranno esagerati, ma più di un secolo fa, a Parigi, la prima esecuzione della Sagra della primavera di Igor Stravinskij - composizione di una novità dirompente - venne rumorosamente contestata. Nel 1965 al Festival di Newport Bob Dylan fece infuriare i puristi del folk imbracciando una chitarra elettrica. Nel 1974 al primo concerto dei Ramones, pionieri del punk, i pochi presenti si chiesero cos’era quel frastuono monocorde. Non dobbiamo quindi respingere a priori la giostra dei Bnrk44, la “alienità” apparente di Ghali, le dance narranti di D’Amico e Big Mama, le confessioni viscerali dei La Sad o le amicizie e gli amori di periferia di Mahmood e Geolier. E neppure sottovalutare le confezioni orecchiabili proposte da Annalisa, Rose Villain, Santi francesi e Kolors.

I tempi cambiano e anche Sanremo deve cambiare. Per avere una conferma basta scorrere la classifica e considerare l’età dei primi cinque cantanti. Non possiamo pretendere che la musica dei figli sia uguale a quella dei padri. Anzi ogni giovane deve avere la possibilità di trovare la sua musica, il suo linguaggio, la propria identità.

Sanremo per cinque giorni è stata la capitale della canzone italiana, una tela bianca sulla quale ogni artista ha potuto dipingere le sue emozioni: la sofferenza, le ansie, le rabbie, la gioia d’esserci, la voglia di riscatto e il desiderio di regalare speranza. Certo, messe alle strette sono solo canzonette, ma anche veicoli per idee che possono accendere passioni e far riflettere. In definitiva ogni anno il Festival, con l’avventura sempre uguale e sempre diversa dei suoi protagonisti, ha il pregio di ricordarci che il potere della musica non va mai sottovalutato.

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