La «Voce umana», il racconto musicale di 50 anni di carriera di Eugenio Finardi

MOLTE FEDI. Il cantautore il 19 novembre sarà al Cineteatro Serassi di Villa d’Almè per proporre una narrazione di quadri esistenziali legati alla sua vita e alla musica. Un percorso di voci, viaggi ed emozioni.

Villa d’Almè

I 50 anni di carriera di Eugenio Finardi si riallacciano tutti quanti a «Voce umana», lo spettacolo teatrale incentrato sul potere dello strumento più antico del mondo. Il cantautore lo presenta il 19 novembre al Cineteatro Serassi di Villa d’Almè in seno alla rassegna «Molte fedi» (inizio ore 21; ingresso 18 euro). La voce come strumento di ispirazione, tra monologhi, canzoni, «quadri» esistenziali che entrano nella narrazione dell’artista e di tutti noi. Finardi ricorda il suo percorso condiviso con altri artisti che han fatto la storia della nostra musica: Demetrio Stratos, Franco Battiato, Fabrizio De André, Alice.

Canzoni cresciute insieme

Sul palco, l’artista è affiancato dal chitarrista e sound designer Giovanni «Giuvazza» Maggiore, il produttore di «Tutto», il concept album uscito mesi fa da cui lo spettacolo, in qualche modo, prende le mosse. «Le canzoni di quel disco sono nate tutte insieme. Di solito prendono vita una dopo l’altra, con una certa consequenzialità, quelle sono nate tutte insieme come un ciuffo di funghi - spiega Finardi - Sono anche cresciute insieme. È bello perché abbiamo le versioni di come si sono evolute, mese per mese. Alla fine rappresentano un concept».

I temi sociali, la crisi politica, l’esistenza, la spiritualità, la stessa scienza, alla fine fanno parte del «tutto».

«Quando mi sono trovato a cercare un titolo, ogni parola che mi veniva in mente descriveva una parte, non il tutto. Ci sono pezzi che partono dall’aeroplanino di carta e arrivano al senso dell’universo, sono frutto di un sentire sviluppato in anni, anche attraverso l’esperienza del Covid. Corrispondono a una crescita ideale, filosofica. Quel flagello è arrivato nella mia vita quando io stesso facevo parte della cosiddetta “fascia a rischio”. C’ero dentro in pieno. Qualcuno se n’è andato, Stefano dei Pooh, per esempio, e tanti altri amici».

In scena il racconto si sviluppa a «quadri», in un percorso che va incontro ad altre voci.

«Lo spettacolo fa riferimento alla “Voce umana” di Jean Cocteau, ma in quell’opera teatrale l’autore parla delle parole che la voce esprime, io invece volevo parlare proprio della voce. Se ci pensiamo io sono nato nella voce, mia madre era una cantante lirica. Ho cominciato a sentir vibrazioni quando ero un feto. Quindi immaginatevi cosa è stata per me la voce, anche in senso lato. Racconto di voci, di incontri fatti, di come si decodifica una voce che può dare emozioni profonde o essere effimera come il volo della farfalla. La voce può essere anche universale: all’inizio fu il Verbo. In alcune lingue antiche la parola corrisponde al suono. La voce come contatto con l’assoluto, anche. Il fatto che abbia deciso di dividere lo spettacolo a quadri dipende da un’idea di teatro canzone. Siamo sul palco io e Giovanni Maggiore che suona i suoi strumenti. Insieme costruiamo questa cosa dove ogni ragionamento porta ad un conseguente brano che serve a sviluppare il discorso. Si toccano anche momenti comici: la storia del microfono di Frank Sinatra è davvero esilarante. Sono tutte storie vere, cose che mi sono realmente accadute».

Un pensiero va anche a Stratos?

«Demetrio era voce».

Avete condiviso l’avventura movimentista degli anni Settanta.

«Non solo: ci siamo incontrati alla Numero1 di Lucio Battisti, con Mogol. Il rapporto con Demetrio è antichissimo. Diciamo che la mia vita non sarebbe stata la stessa se non l’avessi incontrato. Se penso ai due o tre incontri fondamentali della mia vita, penso per primo a quello con lui. Mi ha dato coraggio, è stato come un fratello maggiore. Il nostro mentore è stato Gianni Sassi».

«Ho dei manoscritti di Gaetano Donizetti, sono nato da un soprano, la prima opera che ho visto al Teatro La Scala era “L’elisir d’amore”. Prima o poi dovrò far verificare alla fondazione l’autenticità di quei manoscritti. Mi piacerebbe donarli alla città a nome di mio padre. Era un bergamasco fino all’osso. Ricordo le fatiche che faceva negli Stati Uniti per cercare di sapere cosa aveva fatto l’Atalanta. Ai tempi telefonare costava una fortuna»

Il fondatore della Cramps Records?

«Sì, l’etichetta e tutto quel contesto. La Cramps era come una “factory”. Sassi era un situazionista. Ripensando la sua vita riesco a riconoscere le sue imprese come opere d’arte situazioniste. La stessa Cramps era un’opera d’arte, non era una discografica a scopo di lucro. Il pagamento non era previsto. Del resto non sei retribuito dalla Pietà di Michelangelo, semmai ripagato».

Arriva in Bergamasca in questi giorni mentre si celebra il festival donizettiano. Suo padre era un cultore di Donizetti, lo è anche lei.

«Ho dei manoscritti di Gaetano Donizetti, sono nato da un soprano, la prima opera che ho visto al Teatro La Scala era “L’elisir d’amore”. Prima o poi dovrò far verificare alla fondazione l’autenticità di quei manoscritti. Mi piacerebbe donarli alla città a nome di mio padre. Era un bergamasco fino all’osso. Ricordo le fatiche che faceva negli Stati Uniti per cercare di sapere cosa aveva fatto l’Atalanta. Ai tempi telefonare costava una fortuna».

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