L’Italia preromana, crocevia di relazioni e spostamenti

L’ETA’ DEL FERRO. Il 18 settembre inizia «Sì, viaggiare»: tre incontri promossi dal Museo civico archeologico e dall’Istituto nazionale di Studi Etruschi e Italici per fare luce sui contratti tra i diversi popoli nell’antichità. Si parlerà dell’Etruria padana e del Veneto attraverso le testimonianze giunte fino a noi.

«La donna è mobile» anche nella protostoria, come e anche più dell’uomo. Spesso siamo portati a pensare che le culture e i popoli antichi fossero confinati entro territori poco permeabili alla mobilità; che si spostassero poco, insomma, e che avessero anche più difficoltà a relazionarsi con la cultura dell’altro. L’archeologia ci svela, invece, che da sempre, uomini e donne si sono spostati dalle loro terre d’origine, solo che per motivi diversi da quelli per cui si viaggia nel mondo globale. In particolare, durante l’età del Ferro, nell’Italia settentrionale si assiste a un intenso spostamento di persone. È su questi temi che l’Istituto Nazionale di Studi Etruschi ed Italici – Sezione Etruria padana e Italia settentrionale ha organizzato, insieme al Civico Museo Archeologico di Bergamo, il ciclo di incontri «Si, viaggiare!»: tre conferenze in formula di dialogo tra due studiosi appartenenti all’Istituto che racconteranno modalità e motivazioni di questo fenomeno, con un focus particolare sulla mobilità femminile e su quanto ci racconta l’epigrafia antica. L’appuntamento è il giovedì, sempre alle 17, nella Sala Viterbi di via Tasso.

Giovedì «Sì, viaggiare»

Si comincia il 18 settembre con «Venuti da molto lontano», dialogo tra Roberto Macellari (già Conservatore dei Musei Civici di Reggio Emilia) e Giulia Morpurgo (Università degli Studi della Campania Gianluigi Vanvitelli) sulle figure di stranieri e straniere nelle città preromane dell’Italia settentrionale. I due etruscologi, infatti, si sono dedicati allo studio non solo di importanti complessi dell’Etruria padana, ma anche della mobilità antica nelle città etrusche dell’Italia settentrionale. Ci parleranno di come riconoscere da un punto di vista archeologico gli «Altri», ossia gli stranieri che frequentavano l’Etruria e che hanno lasciato testimonianze nella documentazione archeologica giunta fino a noi. Il 25 settembre, invece, in «Caro amico ti scrivo», Filippo Motta e Pietro Giusteri ci accompagneranno sulle tracce di a identità e mobilità custodite nelle iscrizioni, per chiudere il 2 ottobre con «La donna è mobile» quando Cristiano Iaia e Piera Melli racconteranno storie di donne nelle città preromane dell’Italia settentrionale.

Culture permeabili

Le tre conferenze affronteranno, dunque, l’insolita dimensione del viaggio dal VII fino al II secolo a.C.: «Si immagina sempre che le culture antiche fossero a tenuta stagna. – spiega la direttrice del nostro Museo Archeologico, Stefania Casini – Invece, erano capaci di tessere grandi relazioni, anche a lunga distanza e non solo di carattere commerciale. Numerosi, ad esempio, erano gli artigiani che dall’Italia settentrionale si trasferivano per lavoro in Europa centrale, o viceversa».

Viaggiatori della protostoria

Ad aiutare l’archeologia ad individuare queste figure è il legame inscindibile tra mobilità e identità: «Nell’antichità le persone si riconoscevano dentro gruppi sociali e culturali specifici e segnalavano la loro appartenenza attraverso la lingua, l’abbigliamento o le preferenze per certi oggetti che chi si trasferiva immancabilmente portava con sé. Ecco perché è soprattutto dalle iscrizioni o dal ritrovamento di corredi funerari che possiamo risalire all’identità originaria di questi viaggiatori della protostoria». È così che dalla storia antica emergono, ad esempio, i nomi del fabbro Elicone, che lavora a Roma pur avendo origini celtiche, oppure della donna celtica Kuvei Puleisnai, scritto su un cippo funerario rinvenuto a Rubiera (Reggio Emilia) insieme alla tomba maschile di un capo militare etrusco. O, ancora, la vicenda della principessa di Genova, una donna celtica andata in sposa a un principe ligure.

Matrimoni e alleanze

Si scopre, a sorpresa, che la mobilità era anche e soprattutto femminile: «La mobilità delle donne – prosegue Casini – era più frequente di quella maschile in quanto legata a matrimoni esogamici, ossia contratti al di fuori della propria cerchia sociale. Si tratta di una pratica diffusa, sia perché l’alta mortalità delle donne innescava una certa “ricerca” di figure femminili, sia perché la donna era strumento strategico per tessere alleanze e per far diventare consanguinei due gruppi culturali diversi. In epoche in cui il commercio non era libero ma poteva essere esercitato solo tra consanguinei, il matrimonio tra donne di ceto aristocratico con personaggi di rilievo di altre cerchie culturali apriva la via a nuovi mercati. Ed era sempre la donna che si trasferiva per andare a vivere nel territorio dello sposo, senza mai dimenticare di portarsi un bagaglio di oggetti che identificavano inequivocabilmente la sua cultura di origine».

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