Olivier Latry: la mia musica nasce nell’esatto momento in cui improvviso

L’INTERVISTA. L’organista titolare a Notre Dame stasera inaugura in Cattedrale la rassegna internazionale. «Quando suono ogni cosa è importante: lo spazio, lo strumento, il mio sentire del momento, il pubblico».

Olivier Latry a Bergamo è di casa. Questa sera, per la terza volta, sarà in città (alle 21, ingresso libero, diretta su YouTube in streaming) a inaugurare il «doppio» festival «Bergamo Brescia città degli organi» e il XXXI Festival internazionale «Città di Bergamo» in Cattedrale. Al Festival della Vecchia Bergamo è già stato nel 2006 e nel 2017, stasera sul grande organo sinfonico Corna 2010 il fuoriclasse francese, titolare dal 1995, a soli 23 anni, a Notre Dame, offre un programma a campo largo con pagine di Liszt, Saint-Saëns, la magnifica «Dorica» Bwv 538 di Bach, e i francesi Guilmant, Vierne, Duprè, concludendo la serata (sostenuta da Tenaris Dalmine e Banca Popolare di Bergamo) con un Triptique Improvisée su temi estemporanei del pubblico. A Brescia, con programma diverso, si esibirà presso il Duomo Nuovo (Organo Mascioni 1968), domenica alle 20.Lo abbiamo intervistato.

Lei è stato discepolo e poi successore di Gaston Litaize. Un insegnamento che le ha lasciato il suo maestro?

«La gioia di vivere, la gioia di suonare e di fare musica. Litaize era cieco dalla nascita. Quando l’ho incontrato la prima volta aveva 68 anni, ma nella sua testa era sempre un ventenne, faceva scherzi e battute. Quando suonava era serissimo, ma al di fuori di quello era uno spasso. Aveva sempre pronta una battuta sulla musica e sui musicisti. Nel suonare voleva la massima precisione, non sopportava l’approssimazione, l’imprecisione. Quando mi successe di sbagliare mi dissi “mai più, non c’è niente di peggio”. Allora ero un giovane studente squattrinato. Lui mi disse che non poteva andare a un concerto in Germania e mi mandò al suo posto: era molto generoso. Allo stesso modo ha fatto con tanti suoi allievi».

Come è nata la scelta verso l’organo?

«Ho cominciato con il piano. Avevo un piccolo organo elettronico, una tastiera-giocattolo. L’amico di un mio fratello maggiore mi chiese di prendere la tastiera e di portarla in chiesa, per il suo matrimonio. “Ma c’è l’organo in chiesa, suono quello”, dissi. Non sapevo nulla di manuali, registri, pedaliera, mi arrabattai. Ma durante la Messa, non so perché, usando le combinazioni fisse, sono caduto con le braccia sulla tastiera a tutto ripieno, creando un cluster fortissimo: una donna in chiesa era addirittura svenuta. Ma quell’esperienza mi ha aperto un mondo, e fu un giorno indimenticabile».

Saprebbe spiegare come mai la musica organistica francese oggi è considerata la realtà di punta mondiale?

«È una musica che va direttamente al cuore. Reger, per capirci, ha scritto una musica molto più intellettuale. Noi francesi abbiamo molti colori come in Ravel, Debussy, Poulenc, oltre al senso dello humor, all’ironia. Per questo l’organo si presta alla musica in modo unico. La musica francese è molto in relazione con il carattere dei francesi».

Titolare di Notre Dame e poi della cattedra d’organo al conservatorio di Parigi. Si sente un predestinato?

«Sì, possiamo dire “predestinato”, ossia sono stato davvero fortunato. Mia moglie dice che sono stato baciato dal Signore. La carriera del musicista non è solo suonare. Bisogna avere le occasioni. Ma, anche vedendo i miei allievi, mi appare chiaro che occorrono prerogative umane e modi di gestirsi tanto importanti quanto il suonare per far carriera. La prima domanda che faccio allo studente è “come ti vedi tra vent’anni?” Una vita di successo è quando tu fai sia quello che vuoi, che quello che ti sta intorno, la vita, le persone, vorrebbero che tu facessi. Io non volevo fare l’organista di Notre Dame. Avevo 22 anni. Io pensavo ad altri posti di organista meno prestigiosi, sperando che qualche organista lo avrebbe liberato per andare a Notre Dame. Fecero una unica competizione per Notre Dame e San Sulpice e ancor oggi io non so chi ha deciso che io dovessi finire a Notre Dame e Daniel Roth a San Sulpice».

Cosa ricorda dell’incendio della Cattedrale?

«Ci sono eventi nella vita che ricordi per sempre. Come l’11 settembre 2001. In quel caso fu la stesa cosa. Non posso dimenticarlo: dovevo fare un concerto a Vienna con gli ottoni della Wiener Filarmonica. Arrivati in camera d’hotel, il collega Frederic Blanc (dalla sua abitazione si vede la cattedrale dall’alto) mi manda una foto terribile. Dopo 5 minuti arriva un’altra foto col fuoco propagato. Avevo suonato l’organo il giorno prima. Pensavo che fosse andato distrutto. Mi preoccupavo ancor più che tutta la cattedrale collassasse. Notre Dame è il simbolo parigino del cattolicesimo. Una ferita quasi peggiore che perdere un parente. Un secondo momento indimenticabile fu poco dopo: dovevo stare a Vienna dieci giorni, ma chiesi ai colleghi un giorno per tornare. Era Pasqua 2019. Era un giorno di sole incredibile e, arrivando, abbiamo visto le due torri e il rosone colorato dal sole a fianco di un albero pieno di fiori e foglie: un’immagine di enorme sollievo. La chiesa (e l’organo) verrà riaperta l’8 dicembre 2024. Macron è stato di parola».

Anche in questo suo concerto al Festival ricorrono improvvisazione e trascrizione. Che valore assegna a queste due pratiche musicali?

«La trascrizione è un modo per mettere in relazione l’organo col mondo musicale. L’organo è lo strumento perfetto per la quantità di colori. L’improvvisazione per gli organisti francesi è la norma, quando suoni durante la liturgia non puoi non improvvisare, devi stare nei tempi della celebrazione. Nel concerto peraltro non ho tempi obbligati ma quando improvviso faccio musica in quell’esatto momento. E nell’improvvisazione ogni cosa è importante: lo spazio, lo strumento, il tuo mood, cioè il tuo sentire del momento, il ritorno del pubblico. Per questo è impossibile fare la stessa improvvisazione due volte».

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