Omar Pedrini: addio ai tour. «Devo pensare alla salute»

L’INTERVISTA. Il cantautore giovedì e venerdì in concerto al «Druso» di Ranica. «In due anni quattro interventi. Mi fermo, ma dovevo salutare il pubblico».

Ormai lo sanno tutti: questa è l’ultima corvée per Omar Pedrini. «The Last Waltz» prima del ritiro dalle scene, non dalla musica. La partenza del tour a Firenze, nei giorni scorsi, ora il raddoppio al «Druso» di Ranica giovedì 2 novembre e venerdì 3 (inizio ore 21.30; biglietti disponibili solo per la prima data). «Sono molto contento, la partenza è stata bella», spiega Omar mentre sotto si sentono schiamazzi di bambini, i figli. «I motivi del ritiro sono semplici. Ho il dovere di prendermi cura della salute. Lo devo alla mia famiglia, ai figli. Ho promesso di pensare un po’ di più a me stesso. I tour rock’n’roll, sudore e sangue, in questo periodo di assestamenti vari del fisico non fanno per me. bNegli ultimi due anni ho subito quattro interventi, tre cardiovascolari, e allora ho deciso di fermarmi. Ma non potevo andare via senza salutare il mio pubblico».

Poi che accadrà?

«Sul futuro si addensano tante incognite. Quando sarò sicuro di aver sistemato il cuore malandrino allora potrò prendere in considerazione di non abbandonare la musica: è parte della mia vita. Non rinuncerò a scrivere. Ora sono concentrato sul live, poi vedremo. Potrò comporre canzoni, fare altro. Nei discorsi che abbiamo fatto in famiglia pensando al nostro futuro sono venute fuori tante idee. Nella mia carriera ho fatto l’autore televisivo, teatrale, ho scritto libri, colonne sonore. Ora mi prendo una pausa. Questo è certamente un arrivederci. Do semplicemente un addio all’Omar più selvaggio. Mi preparo a fare qualcosa di più consono alle mie condizioni fisiche, posto che non perdo mai la speranza che la medicina, con i passi avanti che fa, non arrivi a guarirmi del tutto. Non sono pessimista. Sono uomo da progetti, non da bilanci, anche se il cuore mi ha costretto a tirare le somme in questo tour antologico in cui cerco di fare almeno una canzone da ogni album dei Timoria e dai miei».

La sua è stata una carriera avventurosa.

«Sono 35 anni dall’esordio dei Timoria con “Macchine e dollari”. Sono quasi vent’anni dal Sanremo del 2004 e dal Premio della Critica per “Lavoro inutile”. Per il concerto mi son guardato alle spalle. Ma il tempo fugge. Ora il mio babbo comincia a essere stanco, lavorare in campagna non è uno scherzo. Ho sempre pensato che prima o poi avrei fatto il contadino. Dopo il rock la terra. Ricordo quello che mi diceva Veronelli, durante le mie numerose visite in Via Sudorno: «devi mettere in commercio il tuo olio, è troppo buono, non lo puoi tenere solo per te». Mi aveva anche suggerito il nome. Faccio l’olio e le canzoni con lo stesso amore. Ora è il momento di mettere a profitto la mia campagna. Da tempo sono sempre più frequenti i miei viaggi in Toscana. E lì farò un po’ di salutare eremitaggio. Per ora è questo il piano B».

Un po’ d’isolamento potrebbe favorire la creatività.

«Ci ho sempre pensato alla terra, così come mi sono interessato alle questioni ecologiche anche scrivendo canzoni».

Nell’ultimo disco «Sospeso» l’impegno in quel senso non viene meno.

«Se vogliamo pensare al futuro non possiamo prescindere dal rispetto per la natura, il clima, la terra. Quando scrissi “2020 Speedball” mi dettero del catastrofista. Era l’anno del non ritorno nella nostra fantasia. Ce ne sono stati altri e anche questo sembra un tempo del non ritorno. Sono stato un ecologista ante litteram e mi sono preso del complottista più di vent’anni fa. Mio figlio Pablo è grande, per fortuna ha il suo lavoro, diverso dal mio. Si è preparato il suo futuro. Gli altri figli piccoli hanno davanti un futuro davvero incerto. Però sono ottimista: spero che l’uomo ce la faccia a capire che bisogna invertire la rotta. Non mi voglio arrendere. Spero che i miei figli non finiscano sommersi dalle acque per lo scioglimento dei ghiacciai. In Toscana cercherò un futuro anche per loro. La nostra tenuta è a 100 chilometri da Firenze e 130 dalla capitale. Roma mi ispira per il cinema, il teatro. Passo passo andrò avanti. Anche scrivere libri mi piace. Ho un bel contratto con “La nave di Teseo”. Come diceva Ferlinghetti “spero di diventare ciò che sono”. Quando chiudo il concerto con “Freedom” e “Sangue impazzito” mi commuovo. Vedo gente piangere. Prima era un finale simbolico, stavolta saluto davvero».

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