Osio Sopra, torna il duo Elefanti con il singolo «L’impostore»

LA NOVITA’. C’è un prima e un dopo nell’avventura artistica del duo Elefanti: Francesco Arciprete (voce e basso) e Matteo Belolli (batteria). Sullo sfondo Bergamo, un primo disco, «Noi siamo Elefanti», l’esigenza di cambiare dopo una pausa.

A far da confine la pandemia, il Covid. Le prime canzoni rappresentano ascolti, aspirazioni, voglia di esprimersi senza reticenze, con la prudenza dei primi passi. In sala prove lo stile è vicino allo «stoner rock», al grunge di ritorno. Francesco e Matteo ascoltano con attenzione ancor oggi gruppi come Queens Of The Stone Age, Royal Blood, ma hanno trovato un’altra chiave, un altro suono, un produttore come Federico Laini. Li ha ascoltati, capiti, ne ha interpretato le intenzioni comunicative. Così sono nati dei singoli che un giorno non lontano andranno a comporre la scaletta di un album.

Il primo s’intitola «L’impostore»; gli Elefanti lo presentano dal vivo questa sera al «Joe Koala» di Osio Sopra (con inizio alle ore 22; ingresso libero). Gli altri pezzi: «Gengis Khan», «Diamante», «Eco del deserto».

Il nuovo corso passa dal suono, dall’impatto di queste nuove canzoni. «Prima della pandemia, eravamo basso e batteria di un precedente gruppo. Ci siamo messi in proprio e all’inizio abbiamo pensato a un classico triangolo rock», racconta Francesco Arciprete. «Ma il nostro sodalizio era così forte che siamo rimasti tra noi. I pezzi erano underground, piuttosto acerbi, puntavamo sull’immediatezza del messaggio, su qualcosa che avesse caratteristiche buone anche per la radiofonia. La vena più rock stava in secondo piano. Ora la situazione è diversa, io ho quarant’anni, Matteo quattro di meno, una qual maturità artistica l’abbiamo raggiunta. Così diamo voce a quella parte di noi che prima non riuscivamo a esprimere. La musica oggi ha più d’impatto, anche se le linee melodiche sono fondamentalmente pop. Proviamo a fare quello che stanno facendo in Inghilterra gruppi come Royal Blood. Tentiamo di fare la stessa cosa in italiano».

Parliamo del singolo che presentate. Chi è «L’impostore»?

«È una figura biblica, perfettamente attuale. Tra l’altro ci siamo resi conto che c’è un concept che lega i singoli tra di loro. Ce ne siamo accorti a posteriori. C’è un filo rosso che collega tutte le nuove canzoni».

E qual è?

«Il percorso che ognuno di noi potrebbe affrontare, partendo dalla figura dell’impostore: uno che segue e asseconda i canoni che la società impone per raggiungere un altro livello sociale, appartenere a un determinato ambiente. Uno che è capace anche di rinnegare se stesso pur di arrivare. Nell’idea, quando ho scritto il pezzo, pensavo a un soggetto che ha ricevuto un’educazione buona, tradizionale, ma si perde nel percorso esistenziale. Non guarda in faccia a nessuno, anche se c’è una voce interiore che lo avverte degli errori. Il discorso vale anche per “Gengis Khan” e gli altri, compreso “Eco del deserto”, un pezzo che serba una sua spiritualità. Anche qui possiamo trovare un riferimento biblico. Nella cultura cattolica il deserto è il luogo dove appartarsi, meditare, affrontare dei passaggi interiori, ritrovarsi».

Come inquadrate queste tematiche che vi siete trovati a trattare in chiave rockista?

«Ce le siamo trovate tra le mani, in una visione comunque laica. Partiamo dall’osservazione della società, della nostra provincia. Anche lavorando ti trovi di fronte il prototipo dell’impostore. Ci piace mettere in musica quello che vediamo. Ultimamente abbiamo sperimentato una fase di rinnovamento, per ricollocarci, migliorare la nostra visione delle cose. Siamo ripartiti per ritrovarci al meglio. Inutile dire che il nuovo corso prevede anche una componente autobiografica».

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