«Warhol e la Pop Art: un fenomeno Usa lanciato dall’Italia»

AL TEATRO DONIZETTI. Sabato 24 febbraio una lezione speciale con Costantino D’Orazio, direttore della Galleria nazionale dell’Umbria: «Sfaterò i falsi miti sulla sua opera, era un uomo tormentato».

«Andy Warhol e la cultura pop» è il titolo del quinto e ultimo appuntamento con le «Lezioni di Storia» proposte dalla Fondazione Teatro Donizetti, in collaborazione con Editori Laterza e con il sostegno di Cassa Lombarda. Sabato 24 febbraio, alle 11, introdotto da Max Pavan, in teatro sarà di scena Costantino D’Orazio, già curatore del Macro – Museo d’Arte Contemporanea di Roma e ora neodirettore della Galleria Nazionale dell’Umbria di Perugia, ma anche presenza nota in radio e in tv, curatore di mostre e autore di numerose pubblicazioni (biglietti 10 Euro, con riduzione per le scuole, www.teatrodonizetti.it). Una piacevole chiacchierata con lo storico dell’arte ci consente di dare qualche anticipazione, e non solo.

Di quale Warhol ci parlerà?

«Cercherò di sfatare tutti i falsi miti relativi ad Andy Warhol. Uno degli artisti più popolari della Pop Art, è pero fondamentalmente noto – e abusato illimitatamente da parte del marketing, cosa che probabilmente gli sarebbe anche piaciuta – per le sue bottiglie di Coca-Cola e le iconiche “Celebrities”. Ma la ricerca filosofica che Warhol conduce all’interno del suo lavoro è estremamente interessante e molto meno edonistica di quanto poi il suo racconto popolare abbia detto. Pensiamo sempre a Warhol come autore di opere super colorate o comunque foriere di un messaggio positivo nei confronti della vita.

In realtà era un uomo estremamente tormentato, e il tema cruciale della ripetizione seriale esordisce nella sua ricerca non con le immagini dei prodotti da scaffale di supermercato, riprodotti in un numero infinito di volte, ma nei film. I film di Warhol, riprese realizzate con una camera fissa in cui si ripetono azioni, come un bacio o il sonno, per un tempo molto prolungato, spiegano bene quanto il suo rapporto con il tempo sia in realtà un’evoluzione dell’arte minimalista che lo precede immediatamente. In questi film Warhol dilata il tempo secondo una concezione che è più concettuale che pop. Il tema del pop, insomma, è molto più complesso di quanto comunemente si pensi».

Che cosa trasforma la Pop Art in un fenomeno globale?

«È l’Italia ad essere responsabile di aver dato a un fenomeno nazionale statunitense una fama internazionale. Nel 1964, per la prima volta, gli artisti della Pop Art vengono esposti ai Giardini della Biennale di Venezia e il Leone d’oro al migliore artista straniero viene assegnato a Robert Rauschenberg».

I temi indagati dalla Pop Art scorrono anche nella trama del contemporaneo. A cominciare dall’idea del “consumo” dell’opera d’arte.

«Warhol è stato un artista che, negli anni Cinquanta e Sessanta, ancora estremamente lenti nelle comunicazioni, ha accelerato in modo straordinario la diffusione delle immagini e, senza poterlo prevedere, ha effettivamente innescato quei meccanismi che noi ritroviamo oggi esponenzialmente esaltati nella comunicazione attraverso i social network. La velocità con cui Warhol ha realizzato le sue opere è il seme che poi è sbocciato nella comunicazione che viviamo, quella che brucia tutto rapidamente e che, laddove non è utilizzata con consapevolezza, corre il rischio della superficialità e soprattutto dell’effimero».

Velocità, dunque, ma anche serialità. Che valore ha realmente avuto, ieri e oggi, l’”unicità” dell’opera d’arte?

«Potremmo parlare di originalità più che di unicità. Effettivamente, anche nel passato più antico, il peso che aveva la prima versione di un’immagine realizzata da un artista era di gran lunga inferiore rispetto a quello che le attribuiamo oggi. Del Discobolo di Mirone e dei dipinti di Caravaggio circolavano copie in quantità, ma il collezionismo non era così scettico o dubbioso di fronte a un’opera copiata, perché si dava molto valore al senso dell’immagine. Warhol sfrutta questo meccanismo e lo traduce in un linguaggio artistico, concettuale, arrivando ad affidare alla sua Factory la realizzazione di copie delle sue opere su cui non apponeva nemmeno la firma, ma semplicemente un timbro. Oggi questo processo è esaltato all’ennesima potenza e ad essere equiparabile all’operazione concettuale di Warhol legata alla serialità è il concetto di viralità».

Quando un’immagine, un messaggio, un qualsiasi prodotto dei social network diventa virale, immediatamente acquisisce un valore. Dal seriale al virale: questa è l’eredità di Andy Warhol

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