Fichi d’India, Max ricorda Bruno: «Ridere è un’antica ricetta medica»

Tristofobici.Ha scritto un libro divertente e serio, «Non spegnere la Luna», sulla storia del loro duo comico-demenziale.

Due «simpatici deficienti». Due «cialtroni in un unico corpo». Due «bimbi imprigionati in un corpo da adulto». Due «cartoni animati viventi». Quanti hanno riconosciuto, in queste definizioni, i «Fichi d’India»? Che ora hanno una loro «storia» messa per iscritto, consegnata a un libro, da Max Cavallari: «Non spegnere la Luna» (Piemme, pp. 192, € 18,90), uscito a poca distanza dalla scomparsa di Bruno Arena (28 settembre).

«Un libro che parla di me, di Bruno, dei Fichi d’India, di come ce l’abbiamo fatta, della nostra amicizia». Che «non è un decalogo per giovani comici né una raccolta di battute: è la nostra storia». Di battute, freddure, comicità dell’assurdo, doppisensi e nonsense, però, in queste pagine ce ne sono tantissimi, a partire dalla premessa: «Avevo così tanti sogni nel cassetto che non riuscivo più a trovare le mutande». Didascalia della foto della prima comunione: «I parenti stretti sono quelli che indossavi quando eri piccolo. Se non hai una famiglia allargata non ti entrano più». E, qualche volta, coinvolgono anche questa nostra terra: «Il mio inconscio è incosciente quanto una polenta conscia bergamasca, ma senza “s”».

Un’autobiografia che parte dall’infanzia, dalle imitazioni «della mamma e della zia» con cui Max faceva ridere tutti, dai clamorosi insuccessi scolastici: «A scuola ero un fuoriclasse. Passavo più tempo nei corridoi che in aula». La professoressa: «”Guardi, signora, glielo dico francamente, suo figlio potrebbe essere autistico”. Mio papà sbottò: “Ma se non ha neanche la patente!”». Così, Max si accontenta della terza media: «Non ero portato per la scuola ma anche se fossi stato portato (da qualcuno) sarei tornato certamente indietro». Tanto il papà «tristofobico», «terrorizzato dal malumore», ha una fabbrichetta, di calze e collant, dove Max fa i primi passi come lavoratore: «Amavo fare il ribelle. Organizzavo scioperi contro mio papà facendolo arrabbiare di brutto. Per farmi perdonare facevo fare gli straordinari agli operai per recuperare le ore perdute».

Max si guadagna, così, il titolo di «cintura nera di pecora nera» della famiglia. Vuole, da sempre, fare il comico. «Avevo tutti contro. “Metti la testa a posto”, mi ripetevano all’infinito. Quando ci fu la crisi del tessile l’azienda andò gambe all’aria. Indovinate chi pagò la liquidazione ai dipendenti? Io, lo “scemo”». Che nel frattempo aveva avuto successo. A dimostrazione del fatto che far ridere è un affare tremendamente serio.

«È un libro che ho fatto pensando di farlo leggere a Bruno», spiega il comico, «ma lui mi ha fatto questo scherzo: si è messo a morire prima di avvisarmi. Faceva sempre gli scherzi. Il titolo viene da quando andavo a trovarlo in ospedale. Era in coma. C’era questa luna dietro di lui. Gli dicevo: “Non spegnere la Luna”, tieni duro. Poi è uscito dal coma». La frase è diventata «un po’ un tormentone, uno slogan, che ripeto negli spettacoli, la frase che dico ai fan, ai ragazzi magari con dei problemi: tenete duro, mantenete accesa la speranza».

Come si capisce anche da questi pochi assaggi, nel libro il crinale fra vero e invenzione comica appare sottile, il bello della scrittura è anche in questo rapporto «ambiguo» fra amore per la battuta e scrupolo di verità. Ma, assicura Max, «l’80, 90 per cento è vero. Poi qualcosa ho romanzato, per cercare di non fare un libro troppo triste. Con la morte di Bruno mi sono venute in mente tantissime altre cose, che qui non ho potuto mettere. Probabilmente ne scriverò un altro». Fra Max e Bruno «tanti anni, una grande favola insieme: nove film, Pinocchio, Sanremo, “Amici ahrarara”, il primo libro, che vende 600 mila copie...».

Bruno «era il mio vicino di casa, il ragazzo che non mi faceva giocare, cresciuto con questa antipatia nei miei confronti perché mi riteneva imbranato». Un’amicizia che nasce «all’oratorio. Tutto vero. La fabbrica. Anche i capelli lunghissimi. Tanto che i miei amici mi chiamavano Gesù. Vero che quando l’azienda ha dovuto chiudere sono riuscito a liquidare i dipendenti. Alla fine papà e mamma erano orgogliosi di me, lo “scemo”. Ho sempre fatto le cose con amore, anche questo lavoro l’ho fatto con amore. Dico sempre ai ragazzi: “Io non ho studiato. Ma, facendo le cose con amore, senza guardare l’orario, i soldi, in qualsiasi settore si arriva. Far ridere è una missione, un’antica ricetta medica».

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