Adelio Moro: «Ho vissuto in un calcio più umano»

INTERVISTE ALLO SPECCHIO. Il centrocampista di Atalanta, Inter, Ascoli: «Oggi una squadra non è più una famiglia».

Questa intervista è parte del progetto «Interviste allo specchio», condiviso con «Il Giornale di Brescia» e nato in occasione del 2023, l’anno che vede i due capoluoghi uniti come Capitale della Cultura. Ogni domenica i due quotidiani propongono l’intervista a due personaggi autorevoli del mondo culturale (nell’accezione più ampia), uno bergamasco e uno bresciano, realizzate da giornalisti delle due testate. Di seguito trovate l’intervista al personaggio bergamasco. Per scoprire il contenuto dell’intervista all’omologo bresciano, invece, vi rinviamo a «Il Giornale di Brescia»: il link in fondo all’intervista.

La sua classe è sbocciata nell’Atalanta, ma è stato anche nello staff tecnico del Brescia al fianco di Mircea Lucescu, e poi osservatore dell’Inter per un ventennio, a caccia di talenti in giro per il mondo. Adelio Moro, classe 1951, 72 anni compiuti lo scorso aprile, bergamasco della Bassa, tra Mozzanica e Romano di Lombardia, conosce il calcio in profondità, nelle sue molteplici sfaccettature, e soprattutto è stato protagonista delle vicende sportive di Bergamo e Brescia. In particolare come trequartista dal talento cristallino nell’Atalanta (73 presenze e 17 gol), mister della Primavera nerazzurra a fine anni ‘80 e poi dal 1991 al 1996 al Brescia.

Esistono delle differenze, anche culturali e di tradizione, nel modo di vivere lo sport tra Bergamo e Brescia?

«Anzitutto a Bergamo il calcio e l’Atalanta hanno un ruolo nevralgico nella cultura sportiva del territorio. Direi che bergamasco e atalantino sono quasi sinonimi. C’è una vera e propria identificazione con la squadra della città, una passione smisurata per l’Atalanta e un senso di appartenenza profondo. Il Brescia calcio, viceversa, è ovviamente una realtà molto importante, ma rispetto a Bergamo, da sempre i riflettori degli sportivi bresciani sono proiettati anche verso altre discipline, come il basket, il rugby o la pallanuoto. Da noi, invece, l’Atalanta è assolutamente centrale».

Lei ha giocato nell’Atalanta ed è stato in panchina a Brescia. Differenze anche nel sostenere la squadra?

«A Bergamo il calore e la spinta da parte dei tifosi, rappresentano da sempre un fattore decisivo. A Brescia pure c’è calore, ma l’ambiente è più critico nei giudizi. Tra le analogie e le affinità, invece, c’è l’etica del lavoro che è un punto fermo nel modo di interpretare anche lo sport, sia a Bergamo che a Brescia».

La rivalità tra le tifoserie dei due club è storica e spesso anche eccessiva…

«Ai miei tempi si avvertiva meno, poi si è accesa di più all’inizio degli anni 2000. Però devo dire che sono stato uno dei pochi bergamaschi ben voluti anche a Brescia. Con Mircea Lucescu poi si era creato un bel rapporto. C’era feeling. All’epoca, per questioni di patentino, lui era direttore tecnico. Un grande personaggio, parlava 5 lingue, conosceva il calcio e lo sport come pochi. Ho imparato molto da Lucescu. E anche lui accettava i miei consigli».

Di Adelio Moro grande promessa nell’Atalanta invece cosa ci dice?

«Era un calcio diverso. Molto più “umano”, anche nei rapporti personali. Meno costruito e più fondato sul talento. L’Atalanta per me è sempre stata anzitutto una famiglia: con il presidente Bortolotti, Previtali, il dottor Brolis, personaggi grandissimi con cui era facile stabilire un rapporto speciale. Adesso è un po’ più complicato definire il tuo club di appartenenza come la tua famiglia. Però vedo che a Bergamo questa forte tradizione è rimasta: c’è grande attenzione per il settore giovanile, per la crescita dei talenti, non solo come giocatori di calcio, ma anche come uomini».

Lei ha giocato nell’Inter di Mazzola, Facchetti, Boninsegna…

«Per noi erano come dei fratelli maggiori. Maestri che dedicavano tempo anche alla crescita dei giovani. Oggi è più difficile che accada. All’Inter poi ho imparato molto da Suarez. In allenamento restavo a bocca aperta di fronte ai suoi lanci millimetrici. E imparavo da lui. Le mie stagioni migliori le ho vissute ad Ascoli, dal 1976 al 1981. Lì, giocando da regista, ho messo in pratica gli insegnamenti degli anni precedenti».

Poi, fino al 2021, vent’anni da osservatore all’Inter. Girando il mondo, dalla Nuova Zelanda al Sudamerica. Ultimamente ha avvertito dei cambiamenti nel modo in cui l’Atalanta è percepita all’estero?

«Negli ultimi anni, con l’Atalanta dei Percassi e del Gasp che si è imposta sulla scena europea, il nome di Bergamo ha iniziato a circolare con maggior insistenza negli stadi di tutto il mondo. Attraverso il calcio s’è innescato un processo di promozione sportiva e anche culturale della nostra città che ora è molto più conosciuta a livello internazionale. Ed è un fattore molto positivo per l’Atalanta, per i tifosi, e anche per il territorio».

E l’anno prossimo: Atalanta in Europa e Brescia retrocesso sul campo in C - anche se si vocifera che potrebbe essere ripescato...

«Mi spiace molto per il Brescia: è una piazza che merita il massimo per l’importanza della città e per la sua grande tradizione imprenditoriale che da sempre contribuisce a trainare tutto il Paese. Servirebbe, in primis, uno stadio più moderno e funzionale. Da questo punto di vista, sul piano della programmazione e delle strutture l’Atalanta sta facendo cose straordinarie ed è un esempio per tutti».

Leggi sul sito del Giornale di Brescia l’intervista a Beppe Vigasio, pubblicata anche sull’edizione cartacea de L’Eco di Bergamo di domenica 25 giugno.

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