Deleidi: «In Italia tanti ottimi ricercatori»

L’INTERVISTA ALLO SPECCHIO. Proseguono le interviste in collaborazione con «Il Giornale di Brescia». Parla l’esperta di malattie rare, si è formata e lavora all’estero ma dice: «Casa è casa, si ha voglia di tornare».

Michela Deleidi è nata in città, ed è cresciuta a Sorisole. Si è poi trasferita a Milano, dove ha studiato Medicina alla facoltà Vita e salute del San Raffaele. Dove dal 2002 al 2007 ha lavorato, con Gianvito Martino, nei gruppi di ricerca in Neurologia. Una prima esperienza all’estero alla Harvard Medical School di Boston, Massachusetts, poi assistente all’Università

di Tubinga, da marzo guida un gruppo di ricerca all’Institute Imagine per le malattie genetiche infantili di Parigi.

«Volevo fare - dice - un’esperienza all’estero, anche perché mi ero appassionata alla ricerca sulle cellule staminali embrionali e negli Stati Uniti allora ho imparato le metodiche più nuove. Dopo quattro anni sono rientrata in Europa, prima a Tubinga e ora in Francia».

In Italia non c’era un terreno adatto per fare ricerca?

«Ci sono sicuramente delle realtà di altissimo livello, ma rispetto al panorama internazionale sono più isolate: i ricercatori italiani sono ancora ottimi, probabilmente anche perché siamo stati abituati a lavorare con poco e quindi quel poco lo utilizziamo bene. Io sono in contatto con diverse Università in Italia: il livello è molto alto, ma dal punto di vista dell’offerta delle migliori strutture, in Germania e anche in Francia sono più omogeneamente distribuite».

L’esperienza all’estero è fondamentale per chi lavora in questi campi?

«La mia scelta è stata condizionata dal fatto che in quel momento nel mio settore la ricerca si stava sviluppando negli Stati Uniti. E poi quando sei giovane iniziare un’attività all’estero ti arricchisce, si acquisiscono certe qualità che sono utili. È una scelta di vita».

Perché ora si è spostata in Francia?

«Mi occupo dei meccanismi attraverso i quali i geni che causano malattie pediatriche anche rare possono essere dei fattori di rischio per malattie dell’invecchiamento, che oggi sono un problema anche sociale molto preoccupante: le mutazioni indotte dalla Malattia di Gaucher, per esempio, stiamo osservando che sono il più grande fattore di rischio per la Malattia di Parkinson. E questo vale anche per altri geni che favoriscono processi che possono portare alla Malattia di Alzheimer, o altre. Spesso tanti mi chiedono: tu che ti occupi di malattie dell’invecchiamento, cosa ci fai in un centro pediatrico? Mi interessano appunto queste connessioni».

Nel cuore dell’Europa c’è una diversa considerazione delle attività scientifiche? O si ragiona tutti nella stessa maniera?

«Non vedo differenze. Forse anche favoriti da questi consorzi europei, che sono stati molto promossi, e dal fatto che la natura di questo tipo di ricerche richiede grande collaborazione internazionale: ormai lo scienziato che lavora da solo nel suo laboratorio non esiste più. Certo, vivere all’estero con gli anni si fa anche un po’ pesante, se si vuole costruire una famiglia non è semplicissimo. E ovviamente casa è casa, si sente la voglia di tornare. Ma le offerte di rientro per noi italiani sono minori: dopo la crisi economica del 2008 le grandi case farmaceutiche hanno chiuso i laboratori in Italia, mentre in Francia, Germania, Stati Uniti non è stato così. In Europa ci sono molte aziende biotech anche piccole che hanno mantenuto attiva la ricerca. Penso che nei prossimi anni sia un obiettivo nel panorama italiano, o perlomeno milanese, riattivarla, qualcosa si sta muovendo. Questa però è una differenza che si vede e si sente: in Italia molte strade della ricerca, anche privata, sono state chiuse».

Si accusa facilmente il comparto pubblico: non c’è invece una debolezza in quello privato?

«Le grosse aziende hanno spostato lo sviluppo all’estero, per convenienza: la loro parte la fanno, ma non in Italia. Quelle piccole stanno rinascendo adesso, ma sono poche. Al di là dell’offerta lavorativa, questo sviluppo di tecnologia è importante pure per la ricerca accademica, negli Stati Uniti tengono ben presente questo mutuo beneficio tra pubblico e privato: spesso la ricerca di base è troppo dispendiosa per l’industria, che la subappalta all’università. In Italia siamo un po’ indietro ».

Andando e venendo dal resto del mondo, ha visto cambiare Bergamo?

«Certo. Non so se complice l’aeroporto, e l’arrivo di sempre più turisti, però trovo che oggi sia una città molto più internazionale e anche più attiva culturalmente. Piena di eventi. Un mese fa ero lì e ho fatto la camminata Millegradini: ho rivisto, così, il Monastero di Astino, luogo molto bello, che la città sta riscoprendo. Ma di “chicche” culturali e artistiche ce ne sono tante. Quando sono partita, nel 2008, Bergamo all’estero non la conosceva quasi nessuno, adesso invece - spero non sia semplicemente a causa del Covid - tutti la identificano come una città indipendente da Milano e con una propria “anima”: cosa che mi fa molto piacere».

Leggi anche l’intervista al ricercatore bresciano del Cern di Ginevra, Germano Bonomi, su «L’Eco di Bergamo» o sul sito de «Il Giornale di Brescia».

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