Lizzola: «L’ondata consumistica è già il passato»

L’INTERVISTA. Il pedagogista: il lavoro da noi è dignità personale, ma ha avuto sempre pure una prospettiva sociale. Il dialogo nel progetto curato da «L’Eco di Bergamo» in collaborazione con «Il Giornale di Brescia».

La manipolazione del mondo da parte dell’uomo è, da sempre, un’operazione culturale. E lo è massimamente in queste terre interne lombarde, in cui esiste, come si dice rubando l’espressione a un altro dominio, un vero e proprio «culto del lavoro».

«È vero» dice Ivo Lizzola, pedagogista dell’Università di Bergamo, un occhio molto attento ed esperto sulla nostra società: «Questo “culto” è qualcosa indubbiamente di radicato a Bergamo, che si è tramandato tra le generazioni. C’era, qui da noi, il gusto per il lavoro fatto bene, con arte, il possesso di un’abilità, di una professionalità. Per esprimere se stessi, per dire il proprio valore. C’è un periodo in cui questa cultura del lavoro si è espressa appieno: la ricostruzione dopo la guerra. Quello dei bergamaschi è sempre stato un lavoro duro, forte, che ha disegnato la vita delle persone. Penso a coloro che già nei secoli passati andavano a lavorare a Venezia, a Genova, più recentemente in Svizzera, in Francia, in Belgio. Era spesso un lavoro esecutivo molto faticoso e servile, che però permetteva di affrontare le emergenze delle famiglie».

«Far su» la casa, come si dice qui, era migliorare la condizione di vita di una cellula sociale, non di un singolo.

«Ed era un lavoro dedicato non solo alla famiglia presente ma anche alle generazioni future, serviva ad aprire delle possibilità per i figli e addirittura per i nipoti. Il lavoro era ciò che garantiva nel tempo la persistenza stessa della vita. Sì “far su la casa”, ma per me e mia sorella il lavoro di mio padre, e di mia madre, ci doveva garantire poi anche la possibilità di andare a scuola. Il bergamasco ama il possesso del proprio mestiere: eppure c’è sempre stato anche l’altro aspetto, quello di un lavoro che disegna la vita, i tempi, le relazioni».

Lavoro non è solo la mansione dell’individuo che affronta il suo pezzettino all’interno del grande meccanismo, isolato e quindi anche ricattabile.

«Sì, da questo punto di vista la dimensione della dignità del lavoro è molto presente. E quando alla dignità si rinuncia, e il lavoro diventa solo sacrificio, deve comunque avere un senso, non è mai servilismo. C’è dignità anche nella povertà, nel lavoro nudo, crudo, povero - il lavoro edilizio per esempio, tipico bergamasco».

Il bergamasco lavora molto spesso di più e meglio di altri perché ha un suo progetto, a volte «micro» (il bene della sua famiglia) altre volte «macro» (fino a essere visionario), ma ha sempre in vista una modificazione sociale.

«Il profitto è risparmio sensato per la famiglia. E il lavoro è anche spesso legame e forma di assicurazione: lavori che si intrecciano permettono di reggere le condizioni di fragilità e di vulnerabilità di tanti. In una società che lavora anche i più deboli riescono a essere recuperati. Io ho presente alcune scene della cascina dei miei nonni dove c’erano relazioni dure - inutile angelicarle - ma c’era una sorta di attenzione e sinergia perché ognuno potesse dare il lavoro che poteva dare, con dignità. E la trama di rapporti sosteneva i fragili, le vittime degli incidenti, o anche solo dell’invecchiare».

Il grande impegno di quei decenni – 1950-1970 – è uno sforzo che in fondo ha funzionato: ha davvero modificato in meglio la nostra vita.

«E vedevi che i figli avrebbero potuto vivere ancora meglio, perché, appunto, li mandavi a scuola. La salute era più tutelata - nasceva tutto quello che sarebbe diventato il Sistema sanitario; si è cominciato a costruire un sistema pensionistico adeguato: tutele proiettate nel futuro, non soltanto nell’immediato. E quella generazione ne era orgogliosa: avrebbe fatto qualunque cosa. Io sento questo tono, oggi, nei lavoratori stranieri che incontro. Quando vengono i genitori dei miei studenti in Università in occasione delle lauree hanno le lacrime agli occhi. Vengono a ringraziare, a dirti la fierezza che vivono nel vedere la figlia o il figlio laureato e questo li ripaga di tutte le sofferenze del passato. A me viene in mente mio padre, e tante persone come lui che hanno vissuto la stessa emozione profonda».

Forse questi «nuovi italiani» assomigliano più ai nostri padri che ai nostri figli.

«Raggiunta per molti una certa ricchezza, a cavallo tra XX e XXI secolo questa si è spesso piegata in un’accentuazione del consumismo. E l’orizzonte futuro piano piano si è ripiegato a ridosso del presente, del “godersela subito”: questo ha fatto perdere il senso, e anche un po’ la veglia sulla qualità di ciò che stavi facendo. Un senso che io invece vedo riemergere nelle ultimissime generazioni bergamasche. Adesso che tutto è incerto, una prospettiva solo quantitativa di accumulo, di affermazione di sé a scapito degli altri sta andando in crisi. Il mito di consumi esasperati, un po’ stupidi, consumi anche di emozioni, è già cultura di ieri, non è quella di oggi».

Leggi sul sito del Giornale di Brescia l’intervista a Sergio Albertini, esperto di organizzazione aziendale, pubblicata anche su «L’Eco di Bergamo» in edizione cartacea di lunedì 1° maggio.

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