La malattia rara, il dono, il trapianto: così si convive con l’«ospite» sgradito

La storia di Lucrezia. La scoperta a 12 anni della malattia di Wilson. Poi il nuovo fegato e un lento e difficile ritorno alla vita.

Una stella, una nuvola, un raggio di sole: quando vogliamo bene a qualcuno ci sentiamo pronti a scalare il mondo per andare a caccia di regali impossibili, inestimabili, ma forse per questo ancora più belli. Nasce da un gesto d’amore anche il dono più prezioso e desiderato che Lucrezia, 16 anni, di Cermenate, ha ricevuto nella primavera del 2019 all’ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo: un fegato nuovo, che le ha salvato la vita. Sua madre Michela Musante lo chiama «l’ospite», e intende qualcuno di cui prendersi cura, perché «fa parte della famiglia, come un figlio in più. Lo considero il frutto di un atto di generosità immensa che non scorderò mai».

L’intervento è stato eseguito dall’équipe di Michele Colledan, direttore del Dipartimento dei trapianti, «proprio nel giorno di venerdì santo», come racconta la mamma. Su questa vicenda, «un viaggio all’inferno e ritorno», Michela ha scritto un libro che si intitola appunto «L’ospite», con il quale ha vinto il Premio internazionale di letteratura Città di Como nella categoria inediti, ora pubblicato dalla casa editrice Ancora nella collana «Wow» dedicata ai giovani lettori. È un testo forte e intenso, pieno di spigoli, che aiuta a riscoprire il senso del dono, della gratitudine, della vita.

Lucrezia ha la malattia di Wilson, di origine genetica, caratterizzata da un accumulo eccessivo di rame nell’organismo, in particolare nel fegato e nel cervello: «Viene colpito un bambino su trentamila - spiega Michela - ed è capitato a mia figlia. Non lo sapevamo, perché questa patologia è silenziosa e si manifesta inizialmente solo con l’alterazione di alcuni valori ematici. Può capitare quindi di scoprirla per caso, eseguendo analisi per qualche altro disturbo».

Michela ha scritto un libro che si intitola appunto «L’ospite», con il quale ha vinto il Premio internazionale di letteratura Città di Como nella categoria inediti, ora pubblicato dalla casa editrice Ancora nella collana «Wow» dedicata ai giovani lettori. È un testo forte e intenso, pieno di spigoli, che aiuta a riscoprire il senso del dono, della gratitudine, della vita

Non è stato, però, il caso di Lucrezia, una ragazza sana e un’atleta, «che non prendeva mai neppure l’influenza». Le sue giornate scorrevano tra la scuola e gli allenamenti di danza classica e pattinaggio artistico, che praticava a livello agonistico.

«Stavamo attraversando un periodo un po’ faticoso, io ero ricoverata in ospedale a Erba per un intervento all’anca - racconta Michela - e Lucrezia manifestava stanchezza. Sia noi genitori sia la pediatra l’abbiamo attribuita alle difficoltà del periodo: si stava preparando per una gara importante, sentiva probabilmente la mia mancanza, per di più eravamo nel periodo del cambio di stagione».

Aveva dodici anni e mezzo, frequentava la seconda media, di solito sprizzava vitalità e allegria. Le sue condizioni sono peggiorate all’improvviso, lasciando tutti attoniti: «Qualche giorno prima aveva sostenuto un esame di danza, rideva, scherzava e usciva con le amiche a mangiare la pizza, e all’improvviso eccola all’ospedale, con sintomi allarmanti, ogni giorno più debole. Ce ne siamo accorti una sera, mi era venuta a trovare con il fratello gemello Ludovico. Mi sono resa conto che la situazione era seria e l’ho accompagnata al pronto soccorso».

L’intuizione di Michela è stata corretta. L’ittero e i valori ematici facevano pensare a un’epatite fulminante. Poi uno dei medici studiando meglio il caso ha intuito che poteva trattarsi di una patologia diversa, e ha approfondito le indagini. A quel punto le hanno proposto di trasferirla d’urgenza all’ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo, centro d’eccellenza per la ricerca sulla malattia di Wilson. «Ci siamo arrivati con la sirena accesa - racconta Michela - perché Lucrezia stava perdendo conoscenza, a un passo dal coma».

Sono stati momenti drammatici. Nelle espressioni e nei volti di medici e infermieri, Michela ha letto ciò che mai una madre vorrebbe sentire. Qualcuno, mentre Lucrezia lottava in terapia intensiva, ha pronunciato la parola «terminale»: «È un aggettivo che non ritenevo possibile dover ascoltare, e che mai un genitore dovrebbe associare alle condizioni di un figlio - continua Michela -. Non so se riuscirò mai a dimenticare il dolore di quel momento. Non è possibile prepararsi a un’eventualità del genere, mi sembrava di impazzire».

L’unica possibilità, avevano spiegato i medici di Lucrezia, era il trapianto. «Abbiamo subito acconsentito, e sapevamo che nostra figlia doveva sopravvivere fino all’arrivo di un fegato compatibile. Ho detto subito, d’istinto, che le avrei donato il mio. Mi sentivo disposta a tutto, avrei dato la mia vita pur di salvarla». Per quanto dolorosa fosse la situazione, Michela ha dovuto aspettare e pazientare, vivendo, in quella primavera, la sua personale «Via Crucis». Nel frattempo ha avuto accanto il personale dell’ospedale e tanti amici: «Le allenatrici della squadra di pattinaggio venivano tutte le sere percorrendo un’ora in autostrada pur di avere un aggiornamento sulle condizioni di Lucrezia. Tanti altri si mantenevano in contatto con messaggi e telefonate, offrendoci un supporto prezioso».

È stata Lucrezia a sostenere la speranza nella sua famiglia dimostrando forza e tenacia: «Medici e infermieri erano sorpresi, perché affrontava terapie invasive senza avere paura di nulla. Addirittura sorrideva e voleva sapere tutto ciò che stava accadendo. Noi cercavamo di proteggerla, nessuno le parlava mai di morte, in seguito però è stata lei stessa a dirci che sapeva di aver rischiato la vita».

Il trapianto ha segnato una nuova partenza: «È stato davvero l’inizio di una seconda vita, per lei e per noi». Dopo l’operazione Lucrezia e sua madre sono state trasferite dalla terapia intensiva al reparto dei trapianti pediatrici: «Ci sono stati di grande aiuto i volontari dell’associazione Amici della pediatria. Sono venuti a trovarla, le hanno portato dei doni, le hanno proposto attività e laboratori. La loro presenza è preziosissima anche per i genitori, perché permette di prendersi una pausa ogni tanto, di mangiare alla mensa dell’ospedale, di uscire e cambiare ambiente per mezz’ora, ricaricando le energie per poter continuare a essere d’aiuto ai figli. Molto prezioso anche il ruolo della scuola in ospedale, anche se Lucrezia non ha avuto l’occasione di frequentarla a lungo, perché le dimissioni sono arrivate prima del previsto».

È iniziata una vita diversa: «Per i primi cinque anni i trapiantati sono sorvegliati in modo particolarmente attenti dai medici, perché c’è sempre il rischio di un rigetto o di una reazione ai farmaci salvavita che devono assumere. Nel primo anno Lucrezia è stata bene, seguendo il piano dei controlli settimanali in day hospital. A ottobre 2019 è tornata a scuola per un breve periodo, perché poi è iniziata per tutti la didattica a distanza a causa della pandemia. Anche i viaggi a Bergamo si sono diradati, facevamo i controlli a casa e poi mandavamo gli esiti in ospedale. Nell’autunno del 2020 purtroppo i valori che riguardavano il fegato erano di nuovo molto alterati, così siamo tornate al Papa Giovanni dove una biopsia ha confermato un rigetto acuto di media gravità. Hanno sottoposto Lucrezia a una terapia molto forte per tamponarlo. In seguito è emerso che l’arteria epatica e i dotti biliari si stavano ostruendo, perciò si è reso necessario un altro intervento. Il ricovero stavolta è durato pochi giorni ma ci sono mancati moltissimo i volontari. Erano ancora in atto le procedure di emergenza per la pandemia e l’ospedale era immerso in un’atmosfera surreale e dolente, bar e ristorante erano chiusi, dovevamo continuamente sottoporci a tamponi di controllo».

Dopo questa battuta d’arresto, è servito un po’ di tempo per riprendere slancio e coraggio: «I farmaci hanno tanti effetti collaterali, ma pian piano li abbiamo affrontati. Lucrezia ora frequenta il terzo anno di liceo classico, le piace molto studiare. Un tempo diceva che le sarebbe piaciuto studiare medicina, chissà se quello che le è accaduto la spingerà a proseguire in questa direzione. Ha ripreso l’attività sportiva anche se in modo più rilassato, variando le discipline. Si dedica volentieri al nuoto e in particolare a quello sincronizzato, in cui mette a frutto le abilità acquisite nella danza e nel pattinaggio. Il ritorno sulla pista del ghiaccio è stato discontinuo, anche per le sue condizioni di salute, ma questo sport le è rimasto nel cuore».

Per Michela, che ora insegna in una scuola superiore, ma da sempre ha una grande passione per la scrittura, raccontare la sua storia in un libro è stato terapeutico: «La parola scritta - sorride - mi dà l’illusione di tenere sotto controllo la vita anche quando va a rotoli. In questo caso mi ha aiutato a ricostruire il nostro percorso. Tutta la famiglia è rimasta segnata da questa vicenda: abbiamo dovuto resistere a un urto terribile, ma siamo rimasti uniti, anche se ognuno ha reagito in modo diverso, non sempre in modo armonico. Il dolore non mi ha incattivito, anzi, mi ha addolcito, anche nel rapporto con i miei studenti. Dopo aver attraversato un’esperienza come questa non si può restare uguali a sé stessi, infatti anche noi siamo cambiati profondamente. Personalmente ho acquistato una consapevolezza acuta della fragilità, ma ho meno paura della mia morte, l’importante è che i miei figli stiano bene. Il senso del nostro passaggio per me è proprio di prenderci cura dei nostri figli. Seguo con interesse l’attività dell’Associazione nazionale malattia di Wilson e gli sviluppi della ricerca. Abbiamo scoperto attraverso le indagini genetiche che il gemello di Lucrezia è portatore sano, ed è stato un sollievo. Mi auguro che il libro possa aiutare a conoscere meglio questa malattia. Più di tutto ho compreso l’importanza della donazione degli organi. Non so nulla del “nostro” donatore, se non che un pezzo importante di questa persona vive in mia figlia. L’abbiamo accolto come parte della famiglia, con rispetto e gratitudine».

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