Solidarietà, accoglienza, cultura di pace: l’eredità di zia Nati semina speranza

Con i risparmi guadagnati in una vita di lavoro i nipoti di Natalina Bellini hanno creato una Fondazione.

Cresciuta in campagna a Villa d’Ogna, in una famiglia contadina, Natalina Bellini era una persona semplice e concreta. Mai avrebbe pensato che un giorno una Fondazione avrebbe portato il suo nome. Eppure, come scrive Cicerone, «l’eredità più bella e migliore di ogni patrimonio che i genitori possono lasciare ai figli, è l’esempio di una vita onesta». La zia Nati, come racconta la nipote Emanuela Bizioli, «ha lavorato per quarant’anni come infermiera nel reparto di psichiatria dell’ospedale di Mendrisio». Educata alla sobrietà e al rigore - come accade a chi deve trarre il meglio da scarse risorse - ha dedicato la vita al lavoro e ai legami familiari, sostenuta da una fede genuina e profonda. «Quando le abbiamo chiesto che cosa volesse realizzare con il suo patrimonio – prosegue la nipote – ci ha chiesto di far dire tante Messe: sentiva l’importanza e il potere della preghiera». Natalina era la terza di quattro figli: «Era vivace e allegra, da bambina a volte i suoi genitori la sgridavano, perché preferiva giocare a pallone piuttosto che impegnarsi nelle occupazioni femminili come il ricamo e il cucito».

Il padre faceva il contadino e il muratore: «Quando la famiglia ha attraversato un periodo di difficoltà economiche – ricorda Emanuela – la zia Natalina è stata costretta a lasciare il paese e ha trovato un’occupazione in Svizzera. Per un anno è stata assunta come baby sitter da un medico di Lugano, poi ha deciso di frequentare la scuola per infermiere. Non è stato facile per lei, che aveva solo un’istruzione elementare e ha dovuto rimettersi in pari, ma con tenacia ci è riuscita. Si è specializzata come infermiera psichiatrica, ha trovato lavoro a Mendrisio ed è rimasta lì fino alla pensione. Ha rinunciato all’idea di crearsi una propria famiglia quando il fidanzato, poco prima delle nozze, è rimasto vittima di un incidente d’auto. Da allora è sempre rimasta sola, finché uno dei fratelli ha trovato lavoro in Svizzera ed è andato a vivere con lei».

Nonostante una posizione professionale solida, hanno sempre sentito sulle spalle il peso della povertà: «Non si concedevano abiti nuovi o cene al ristorante – osserva Emanuela –, erano convinti dell’importanza di mettere da parte ogni risorsa. Durante le ferie la zia tornava a Villa d’Ogna e si metteva al servizio della famiglia per le faccende domestiche e i lavori dei campi. A Mendrisio non si limitava ai suoi compiti di infermiera ma si assumeva anche altri incarichi, come per esempio accudire alcune persone anziane. Gestiva i soldi che guadagnava con attenzione e timore, depositandoli in diverse banche per sentirsi al sicuro da eventuali fallimenti».

Una volta giunta alla pensione, zia Natalina è rientrata in Italia: «Ci siamo accorti che era diabetica e aveva bisogno di cure. La sua memoria non era più molto salda, perciò le abbiamo dato una mano a ricostruire la sua situazione economica, aiutandola a destreggiarsi fra tanti cambiamenti, compresi i cambi dal franco svizzero alla lira e dalla lira all’euro. Ci siamo quindi resi conto che nel tempo aveva accumulato un piccolo patrimonio. Quando le abbiamo chiesto che cosa intendesse farne, ci ha esposto il desiderio di far dire tante Messe».

Emanuela e gli altri nipoti si sono rivolti a un notaio per capire quale fosse la modalità migliore per mantenere il patrimonio della zia e «far dire negli anni molte Messe, secondo la sua volontà».

«Diremo io o noi? – scrive la poetessa Mariangela Gualtieri –. E quanto grande il noi, quanto popolato? Che delicata mano ci vuole ora, e che passo leggero, e mente acuta, pensiero spalancato al bene». Ed è in questa direzione, realizzando questo «sentimento» che ha preso forma il progetto della Fondazione Zia Nati, che è stata costituita ufficialmente nel 2007, e oggi compie quindici anni. Un’eredità che poteva restare privata, così si è tradotta in una forma di condivisione, non solo di risorse ma di relazioni, legami, idee, che oggi uniscono persone, associazioni e gruppi in diverse parti del mondo. Per Natalina, nel frattempo, si era reso necessario il ricovero in una residenza per anziani, dove è rimasta fino alla morte, nel 2012.

L’aiuto ai missionari

Emanuela si è preoccupata di alimentare attraverso la Fondazione della zia anche i valori che avevano sempre ispirato la sua vita: «Ci siamo proposti tre linee d’azione: l’aiuto diretto ai missionari del nostro territorio, sostegno a micro-progetti di solidarietà, una presenza sul territorio per promuovere una cultura della pace e dell’accoglienza. Abbiamo quindi avviato le attività della Fondazione seguendo questa traccia».

Il tono e lo stile sono quelli che la zia aveva chiesto: «La nostra è una Fondazione familiare, che non può sostenere grandi imprese ma offrire slancio, speranza, e creare relazioni che durino nel tempo». È come gettare semi che negli anni hanno già dato frutti importanti, di cui Emanuela tiene memoria in un album pieno di lettere, fotografie, testimonianze, costruito con cura e affetto.

Lei stessa ha seguito una strada simile a quella della zia: «Sono anch’io infermiera, a vent’anni sono partita per la Somalia come volontaria per una ong. Dopo due anni trascorsi nei campi profughi, ho deciso di iscrivermi alla scuola per ostetrica. Sono andata a Brescia per terminare gli studi, poi sono partita per la Bolivia accompagnando nella missione diocesana due preti, don Mario Maffi e don Luigi Manenti. Ci sono rimasta due anni, mettendomi al servizio della gente e delle parrocchie della missione come ostetrica, infermiera e anche perpetua. Quando sono rientrata mi sono occupata di commercio equo, ho cambiato diversi luoghi di lavoro, come ostetrica e poi infermiera per le cure palliative, esperienza forte e bellissima».

Ha fatto tesoro di queste esperienze quando si è trattato di avviare nuovi progetti, creare reti, e mettere in moto energie positive: «Il consiglio della Fondazione si è gradualmente allargato (e rafforzato) dalla partecipazione di nuove persone, con una sensibilità vicina alla nostra come Grazia Balduzzi, Irene Seghezzi, Francesco Pendezza, Aurelio e Alessio Scandella. Ognuno con le proprie competenze si è prodigato con grande generosità condividendo impegno e scelte».

Ognuno dei numerosi progetti sostenuti in questi quindici anni è stato anche un’occasione di scambio e di conoscenza, dando vita ad amicizie durature.

Sono molte le avventure narrate nelle pagine dell’album dei ricordi della Fondazione, che spesso testimoniano un forte coinvolgimento delle comunità del territorio: «Dopo il terremoto in Emilia, per esempio, abbiamo aiutato due caseifici a rimettersi in piedi, l’azienda Rossi di Rio Saliceto e la Caretti di San Giovanni in Persiceto. L’idea di base era quella di acquistare i loro prodotti come aiuto per riavviare la loro attività. Abbiamo ordinato 75 mila euro di parmigiano e siamo riusciti a distribuirli in tutta l’Alta Valle Seriana vendendolo a prezzo modico coinvolgendo gli Alpini, quasi tutte le parrocchie e i gruppi missionari della zona. La prima volta che siamo andati a trovarli erano a terra, alla fine dell’operazione abbiamo avuto la soddisfazione di constatare che i danni avuti erano stati riparati e il processo di produzione era ripreso. C’erano stati anche duemilacinquecento euro di avanzo con i quali eravamo riusciti ad aiutare una parrocchia di Finale Emilia a riparare qualche danno nella chiesa».

In attesa di poter riprendere alcune attività sospese a causa del Covid, come l’organizzazione di spettacoli teatrali per le scuole, incontri culturali e di sensibilizzazione la Fondazione sta attualmente aiutando Moise, un bambino congolese con una storia difficile e gravi problemi di mobilità degli arti inferiori, giunto in Italia per la tenacia della volontaria Norma Albricci e di sua figlia Eleonora, per essere sottoposto a numerosi interventi all’ospedale Bambin Gesù di Roma. Si è inoltre impegnata nella costruzione di due scuole e di un pozzo nella zona di Sakalalina, in Madagascar, dove opera una volontaria bergamasca, Anna Mottes, in collaborazione con l’associazione Fides onlus, che gestisce fra l’altro un efficiente ospedale pubblico.

Terapisti ed educatori

« Abbiamo acquistato nel tempo anche due appartamenti, uno a Gazzaniga e uno a Piario – aggiunge Emanuela –, offrendoli in comodato gratuito ad altrettante associazioni attive in ambito di assistenza psichiatrica, come luoghi di accoglienza per le persone pronte a sperimentare l’autonomia, con l’accompagnamento di terapisti e educatori». Quest’anno l’appartamento di Piario è stato dedicato all’accoglienza di una famiglia afghana, in risposta a un’emergenza. «Un intervento – racconta Emanuela – portato avanti in forte connessione con il territorio, con la collaborazione del Comune e della Farsi Prossimo di Clusone. La famiglia Nadiri comprende sei persone, la mamma e cinque figli tra i 14 e i 26 anni. Sono arrivati in Italia dal Pakistan lo scorso 3 gennaio grazie all’aiuto di “Give me a hand”, ora si stanno ambientando e hanno iniziato a frequentare corsi di italiano. Le spese da sostenere sono state molte e questa è stata l’unica volta in cui la Fondazione ha chiesto aiuto ai privati per poterle affrontare: questa attività, infatti, non pianificata, si è aggiunta a quelle che già erano state deliberate per quest’anno. Diverse associazioni della zona si sono mobilitate per aiutarci nella raccolta fondi».

Le iniziative della Fondazione (informazioni e contatti su www.fondazionezianati.it) si sono intrecciate in modo stretto con la vita delle persone che ne fanno parte e che le dedicano tempo ed energia: «Il bilancio – sottolinea Emanuela – è di una grande rete di contatti umani costruiti nel tempo. Siamo lieti di aver fatto la scelta di condividere questa eredità. La zia Nati non sentiva di aver fatto qualcosa di straordinario, ma dai suoi sacrifici e dal suo impegno stanno nascendo tanti progetti per la collettività. Lei viene ricordata e così il suo modo di vivere, modellato sull’essenzialità».

© RIPRODUZIONE RISERVATA