Morirono di Ebola per assistere i malati
Tre suore delle Poverelle venerabili

Vittime del virus in Congo nel 1995. La Congregazione delle cause dei santi ha emesso il decreto per le «virtù eroiche» di suor Floralba Rondi (di Pedrengo), suor Clarangela Ghilardi (di Trescore) e suor Dinarosa Belleri, bresciana.

Morirono a servizio dei poveri nell’Africa dimenticata delle pandemia che non finiscono mai. Morirono in Congo nel 1995 di Ebola, virus assassino e potente che continua ad infestare a tempo alterno molte regioni del continente. Ieri a tre delle sei suore, quattro bergamasche e due bresciane, dell’Istituto delle Suore delle Poverelle, fondato nel 1869 dal sacerdote bergamasco Luigi Maria Palazzolo, morte in Congo nel 1995, sono state riconosciute le «virtù eroiche». La decisione è stata presa dal Papa e pubblicata dopo un’udienza con il cardinale Marcello Semeraro, prefetto della Congregazione per la cause dei santi.

Dalla diocesi di Kikwit

Gli atti del processo per la beatificazione erano stati inviati dalla diocesi di Kikwit in Congo in Vaticano sette anni fa, dopo che alla documentazione erano state aggiunte le rogatorie chieste alla diocesi di Bergamo per gli anni in cui le suore avevano vissuto in Italia. Le virtù eroiche sono state riconosciute a suor Floralba Rondi, 71 anni, di Predengo, la prima a morire il 25 aprile 1995, a suor Clarangela Ghilardi, 64 anni, di Trescore e a suor Dinarosa Belleri di Villa Carcina, in provincia di Brescia.

Per le altre, suor Danielangela Sorti, 47 anni, di Lallio, suor Annelvira Ossoli, 58 anni, di Orzivecchi (Brescia) e suor Vitarosa Zorza, 51 anni, di Palosco, l’ultima morire il 28 maggio 1995, l’esame della documentazione alla Congregazione delle cause dei santi è in corso. Il riconoscimento delle virtù eroiche, nel pieno di un’altra pandemia che vede l’Africa tra i luoghi più dimenticati per le cure e la distribuzione del vaccino, assume un significato simbolico che è anche un messaggio nel solco dei ripetuti appelli di Papa Francesco a non lasciare indietro nessuno. L’epidemia scoppiò il 15 marzo 1995, quando Gaspar Menga, individuato poi come il paziente 1, tornò a casa con la febbre alta dal lavoro nei campi in un villaggio poco distante dalla missione dove abitavano le suore. Dieci giorno dopo morì dissanguato da un male che nessuno sapeva definire e la stessa sorte in poco tempo toccò al fratello, ad un figlio e ad altri familiari. Ebola è un virus devastante, una febbre emorragica acuta che venne identificata per la prima volta nel 1976. Quella che colpì la regione di Kikwit nel sud ovest del Congo fu la prima vasta epidemia di cui si seppe in Occidente.

L’ospedale della città si riempì di moribondi per i quali non si sapeva neppure che fare. Le suore italiane contribuirono in maniera decisiva a far arrivare le informazioni in Europa. Da Kikwit comunicavano via radio a Kinshasa, la capitale, dove i messaggi venivano trascritti e inviati via telex e telefax alla loro Casa madre a Bergamo. Suor Floralba Rondi morì il 25 aprile insieme a quasi tutti i medici e gli infermieri dell’ospedale che per circa un mese avevano curato gli ammalati nell’ospedale. Faceva parte del primo gruppo di suore inviate in Congo nel 1959.

L’epidemia dichiarata tardi

Il 6 maggio morì suor Clarangela. Le autorità locali e il governo centrale dichiararono l’esistenza l’epidemia solo alla metà di maggio. Suor Danielangela Sorti morì l’11 maggio. Suor Dinarosa spirò tre giorni dopo. Durante le prime settimane passò tutte le giornate con gli ammalati. Le ultime due suore non erano di Kikwit. Suor Annelvira era la superiore provinciale residente a Kinshasa e viaggiò per 500 chilometri per stare vicina alla consorelle ammalate. Morì il 23 maggio. L’ultima, suor Vitarosa, veniva dalla missione di Kingasani e aveva riempito due valige di medicinali per correre in aiuto dei malati di Kikwit convinta che fosse solo una forma più acuta di diarrea rossa. Morì il 28 maggio. L’epidemia uccise in un paio di mesi 244 persone.

Fu quella la prima volta che l’Oms pubblicò linee-guida per affrontare Ebola, imponendo di avvolgere i cadaveri in teli di plastica sigillati e seppellirli in fosse comuni. I medici internazionali che visitarono la zona nei mesi successivi inviati dall’Oms testimoniarono il sacrificio delle suore. Padre Giulio Albanese, missionario comboniano in Africa in quegli anni, ricorda di aver incontrato qualche tempo dopo all’Agenzia federale di controllo delle malattie di Atlanta negli Stati Uniti uno di loro che gli fece un dettagliato resoconto del coraggio delle suore italiane.

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