«Come una guerra, ma senza rifugi»
Alzano, il racconto dalla trincea

Alberto Albertoni, 66 anni, guida l’équipe di Anestesia e Rianimazione all’ospedale di Alzano.

A 66 anni il dottor Alberto Albertoni è a un passo dalla pensione. Originario di Cremona, nel 1981 entra al «Bolognini» di Seriate e da lì al «Pesenti Fenaroli» di Alzano. È un medico di sala operatoria, anestesista e rianimatore. I malati li vede svegli qualche istante prima del farmaco che li addormenta, poi al risveglio dopo un intervento.

E torna subito in sala operatoria. Generalmente, da decenni. «Generalmente, diciamo che non avviciniamo il paziente sul piano umano, comunque molto meno di medici di altre specialità, per esempio la chirurgia, la medicina, che dialogano con i malati, con i loro familiari. Noi li addormentiamo e li svegliamo». Ma stavolta è andata diversamente. E, dice il primario: «È stato tremendo, abbiamo vissuto il dolore, sulla pelle».

La specialità in anestesia e rianimazione da 20 febbraio è la primissima linea, perché i malati infettati dal virus sono gravi, gravissimi e spesso serve, immediatamente, farli respirare. O «annegano». Anestesisti e rianimatori sono usciti dal blocco operatorio e sono entrati nei reparti. Ad Alzano l’équipe del dottor Albertoni ha lavorato fianco a fianco a tutti gli altri specialisti, da domenica 23 febbraio dedicati ai malati Covid-19. Turni di 48 ore di fila, giorni senza staccare un attimo, qualche ora di riposo e di nuovo lì, nell’epicentro.

«Una delle mie collaboratrici si è ammalata subito, altri nei giorni successivi, l’impatto è stato immediato, ci siamo ritrovati a ranghi ridotti ad affrontare la valanga. Come essere sotto un bombardamento, cercando un riparo che non c’è, perché di questo virus a due mesi dalla sua comparsa in Italia sappiamo qualcosa, ma allora nulla. Ogni informazione scientifica e sulle terapie da adottare veniva contraddetta da una immediatamente successiva. Qui ad Alzano non c'è terapia intensiva, quindi in qualche ora, qualche giorno ci siamo ritrovati a dover allestire procedure di sub intensiva a decine, in attesa che si potessero trasferire i più gravi in altri ospedali.

Quindi, con i miei collaboratori che sono stati straordinari, abbiamo garantito il supporto intensivistico nei reparti, ventilazioni polmonari a varie intensità, dalle mascherine ai Cpap. Ripeto, è il nostro lavoro e lo sappiamo fare: ma mai nella mia lunga carriera di medico, ho visto così tanti malati tutti insieme e tutti in insufficienza respiratorio. E non ho mai visto morire così tante persone, senza un parente vicino. Non è normale morire in ospedale, in ospedale si guarisce... È stato tremendo. Ho toccato con mano i limiti e ho gioito come un medico appena entrato in un ospedale quando ho visto pazienti guarire. Tremendo vedere i loro occhi chiedere aiuto e sapere di non poter arrivare a darglielo, nonostante e lo dico con forza, qui ad Alzano non sia mai mancato nulla.

I colleghi del servizio farmaceutico aziendale hanno fatto i salti mortali, ci hanno garantito tutto e tutti i malati sono stati curati e assistiti. E, questa la cosa che più mi ha toccato, sono stati assistiti con amore. I media ci hanno maltrattato? Non abbiamo avuto tempo, nè ne abbiamo ora, per occuparci di “salvare la faccia” del nostro ospedale. Qui abbiamo fatto altro. Abbiamo curato, abbiamo cercato di farlo, contro un nemico che non conosciamo, con quello che abbiamo. Nei pochi momenti liberi pensavo a mio padre, morto anni fa a 95. Alla fine, la memoria un po’ l’aveva abbandonato. Ricordava però, sempre e con lucidità, la guerra e l’internamento nei lager. Un evento così traumatico si fissa nella memoria e non dimentichi più. Saranno così per me, questi due mesi».

Ma c’è anche altro. Non finisce con il dolore l’esperienza nell’epicentro del focolaio. «Le immagini della peste del 1300 sono più o meno le stesse che abbiamo visto oggi. Certo, molti sono sopravvissuti e sopravviveranno grazie anche agli enormi progressi della medicina, ma quello che è accaduto ci deve davvero riportare all’umiltà, ci faccia capire che l’imprevedibile esiste, che l’errore esiste. Che possiamo fallire. E che la carezza a un malato, anche con gli occhi da una mascherina, sono a volte l’unica medicina». L’unica, davvero.

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