Isolamento di 3 mesi e 13 tamponi positivi
Marco: «Mi dà forza la fiducia»

Marco Carrara di Albino è ricoverato da 87 giorni. Dopo la morte del padre per Covid, si è ammalato: «Nonostante tutto mi sento fortunato: sono qui».

Manca da casa da tre mesi: 87 giorni di ricovero «e ieri ho fatto il 14° tampone: che sia la volta buona?». Non resta che una buona dose di ironia, oltre alla fede che non delude, per affrontare l’isolamento in un centro Covid, ultima lunga tappa dopo il ricovero in ospedale. Marco Carrara questo infido virus l’ha affrontato a muso duro, ben due volte. Non ha ancora vinto, ma la parola che si sente di mettere in testa ai suoi sentimenti, alle sue convinzioni, è «fiducia».

«Sono di Albino e vi scrivo dalla mia stanza di ospedale». Inizia così la sua lettera al nostro giornale Marco Carrara, sposato con Simona e papà di Matteo di 15 anni e di Gianluca di 11. «Albino, con Nembro e Alzano – prosegue l’impiegato di 43 anni – è una delle zone più colpite dal Coronavirus. Nel nostro paese in meno di due mesi ci hanno lasciato più di 150 amici, fratelli, parenti. Una strage che ci lasciato un grande vuoto, impotenti non potendo fare nulla. Non possiamo neanche piangere i nostri cari. Anche io ho perso mio padre Valerio nel giro di una giornata, senza neppure averlo salutato. È stato portato via dagli operatori del 112, si è ritrovato da solo in ambulanza, da solo ha sofferto, da solo è morto e da solo è stato caricato su un camion militare per una destinazione a noi ignota per essere cremato».

Quanto hanno fatto e stanno facendo gli operatori sanitari è, per Carrara, «un qualcosa di unico ed eroico ma la sofferenza è tanta, troppa. L’unico ricordo che mi è rimasto di mio padre è la sirena dell’ambulanza che si allontanava da casa».

Un ricordo ancora più prezioso e straziante, se si pensa che «purtroppo mio padre, come parenti e amici non li incontravo dal 21 novembre dello scorso anno, da quando per una mielofibrosi (anticamera della leucemia) sono stato ricoverato per essere sottoposto al trapianto di midollo osseo – spiega Carrara –. Da quella data, prima in ospedale e poi a casa, ho dovuto rispettare restrizioni a causa dell’immunodepressione, non potendo neanche abbracciare mia moglie e i miei figli».

Già, perchè «il Covid19 si è affezionato alla mia famiglia e dopo aver bussato alla porta di papà, ha bussato alla mia di porta. Risultato positivo con desaturazione e infezione polmonare (aggravata anche dalla mia situazione di trapiantato), il 31 marzo mi hanno ricoverato all’ospedale Papa Giovanni e ora mi trovo in una struttura Covid per riabilitazione e in attesa di tampone negativo, sempre isolato dal mondo e dalla mia famiglia».

L’amara conclusione di Carrara è che «questo virus ci ha spogliato della dignità, neanche le lacrime bastano a consolare il nostro dolore», ma non finisce qui. «In tutto questo la parola che più mi ha aiutato è stata Fiducia. Fiducia nelle persone amate – prosegue –, negli amici, nei medici, nella vita che pur burrascosa ti da tanto se si sa cogliere il bello anche nel granello di sabbia e per chi crede, fiducia in Colui che vede e provvede. Una volta acquisita e fatta propria, questa parola diventa Affidarsi e tutto è più semplice anche nelle difficoltà e io nonostante tutto mi sento fortunato perché posso raccontarlo, ho una famiglia che mi sostiene e tanti amici che ogni giorno pensano e pregano per me».

Carrara aspetta e resiste: «La cosa che mi sta aiutando in tutto questo è la radice di entrambe le parole: Fede. Penso che ognuno può starci dentro e sentirsi sostenuto. Non sono un santo – conclude –, non cerco gli onori degli altari o un riconoscimento pubblico» e infatti preferisce allegare, anziché una sua fotografia, uno scatto fatto dalla sua stanza del Papa Giovanni prima che lo trasferissero nel centro di riabilitazione: «Un tramonto visto dalle fessure delle tapparelle... per una strana coincidenza si è riflesso il letto di degenza. Questa foto mi dà un senso di speranza».

In ospedale lui ha incontrato « chi nel silenzio opera tutti i gironi a salvaguardia della nostra salute: degli angeli custodi in camice bianco. Li ringrazio. Così come dico grazie a voi de L’Eco di Bergamo, in questi mesi siete stati miei compagni di viaggio. Da cittadino, padre di famiglia e marito, da cristiano impegnato in varie realtà del mio territorio sono orgoglioso di come Bergamo abbia reagito, il motto coniato “Möla mia” ben si addice».

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