Villa di Serio, in fila tra lacrime e silenzi
Riaperto il cimitero dove tutto iniziò

Riapre il camposanto in cui è stato tumulato il primo deceduto per Covid in Bergamasca. Coda regolamentata. Il parroco: senso di solitudine

C’è coda all’ingresso. «Ed è brutto vederla anche qui, come se fossimo al supermercato», si rammarica la signora Carolina Crippa in attesa della prima visita sulla tomba del marito. Questioni di profilassi, quelle che regolamenteranno per un po’ le nostre vite e che hanno dettato legge anche quando in questo paese si moriva come mosche e i funerali erano liofilizzati da procedure drastiche sino alla crudeltà: una preghiera, pochi parenti, un saluto fugace e straziante nel silenzio malato, il primo tepore primaverile fuori, il gelo della solitudine dentro. Villa di Serio torna dai sui morti, e lo fa in modo composto, asciugando le lacrime e rispettando la fila.

È il primo giorno di apertura, dopo due mesi di cerimonie semiclandestine, nel camposanto che ospita la salma di Ernesto Ravelli, nato il 12 settembre 1939 e morto il 23 febbraio 2020, la prima vittima dell’ecatombe bergamasca. Era ricoverato all’ospedale di Alzano, risultò positivo al Covid-19 il 22 febbraio, la sera dopo morì al Papa Giovanni di Bergamo. È l’istante da cui sono cominciate a cristallizzarsi mille tragedie, e questo è tra i comuni che hanno pagato il prezzo più alto. «Cinquantun morti nel periodo del coronavirus, 62 dal 1° gennaio, quando in un anno qui muoiono in media 35 persone», è la triste aritmetica di don Paolo Piccinini, il parroco arrivato al cimitero sulla sua mountain bike.

La tomba di Ernesto Ravelli è un loculo al terzo piano, in fondo a una lunga teoria di lastre di marmo. La lapide su cui è appiccicata la sua foto è di plastica, provvisoria, come molte altre qui. Te lo indicano le donne in visita i propri cari, come se la ribalta mediatica della sua morte gli avesse donato una celebrità postuma. «A marzo ne son morti 40, è stato un massacro. Io sono rimasto a letto 12 giorni con febbre a 39° e ora posso dire che mi è andata bene», scuote la testa Agostino Dossi, 64 anni, volontario della Protezione civile che sta controllando l’uscita in via Cimitero. Comunica via radio al collega Alessandro Lavelli quante persone hanno lasciato il camposanto e quest’ ultimo ne fa entrare altrettante, perché all’interno non devono mai esserci più di 15 visitatori. Alle 9,30 la fila conta 7 donne e un uomo. Alcune hanno fiori, i più nulla. «Mio marito Ferdinando aveva 70 anni. È morto il 12 marzo alla Rsa di Torre Bordone - racconta Carolina Crippa -. Non di coronavirus, aveva altre patologie.

È stato uno degli ultimi a essere cremato a Bergamo. Le sue ceneri me le hanno riportate il 26 o il 27 marzo, non ricordo più bene. Siamo venuti qui al cimitero, eravamo in tre: io e i miei due figli, più il parroco. Dieci minuti, il tempo di dire due parole. Non potevamo abbracciarci, non c’era il calore dei parenti e degli amici. Una cosa molto fredda, perché un funerale non è solo lacrime, ci sono anche i ricordi e magari qualche sorriso». La signora entra, passa in rassegna alcuni loculi, poi arriva ai colombari. «Di nuovi defunti ne sono tanti - commenta Carolina -, alcuni non sapevo nemmeno fossero morti». Sergio Viganò è venuto a trovare il suocero Lodovico Bernasconi, morto l’11 marzo, e la suocera scomparsa 16 mesi prima.

«Sono nella stessa tomba - dice -; lei nella bara, lui nell’urna cineraria. Dovremo modificare la lapide. È stato cremato ad Alessandria. L’han portato via in una cassa da morto e una settimana dopo ci hanno portato la cassettina con le ceneri. Lo stato d’animo? Adesso almeno puoi far visita a una tomba». Bruna Nicoli ha gli occhi lucidi davanti al colombaro del marito. «È morto il 9 marzo al Papa Giovanni. Aveva la febbre. È entrato il lunedì precedente, l’abbiamo visto il martedì, poi più visto e sentito fino a quando il 24 mi hanno portato l’urna. Non so nemmeno dove è stato cremato». C’è senso di smarrimento e solitudine in tutti i racconti, lo stesso che don Paolo percepiva al telefono in quei giorni maledetti. «Mi chiamavano: lacrime, silenzi, singhiozzi, a volte non riuscivo neanche a capire chi stava parlando. E poi gli addii, qui al cimitero, l’assenza della comunità, il dramma di vivere in solitudine questi momenti. Tutto questo non ha un peso indifferente». «È stata una ferita nella ferita», chiosa il sindaco Bruno Rota.

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