L’ospedale di Alzano due anni dopo: «Nessuno di noi dimenticherà mai»

Il «Pesenti-Fenaroli» L’ospedale della Val Seriana fu il primo e più duramente colpito. Parlano medici e infermieri, oggi dopo due anni: «Ci ha salvato la fiducia della gente di qui».

Se qualcuno ha fretta di dimenticare e andare avanti senza più tornare indietro, parli con il dottor Nicola Ghidelli. Nel tono della sua voce non c’è l’angoscia di due anni fa, quella non c’è più. Medico della Medicina all’ospedale di Alzano, trascorreva le notti a vegliare moribondi da Covid e intanto scambiava email con gli ex compagni di corso all’università di Pavia. Scandagliavano pubblicazioni sul web, The Lancet, American Journal of Medicine, la caccia serrata e in qualsiasi lingua, qualcuno che dicesse cosa fare, come curare, le frontiere in tempo reale della ricerca. Ma non c’era un bel niente di niente. Era un’ecatombe e nessuna medicina, terapia che funzionasse. E se ancora oggi ci si chiede perché il virus esplose tra Alzano e Nembro, e non ci sono risposte convincenti, figuriamoci allora. «Ho avuto bisogno e non ho alcuna vergogna nel dirlo, di rivolgermi alla psicoterapia».

Le testimonianze

Nicola Ghidelli chiama per nome quel male che tanti tra il personale del «Pesenti-Fenaroli» di Alzano Lombardo hanno vissuto: disturbo post traumatico da stress. Lo stesso dei soldati tornati dalla guerra. «Mi sentivo in colpa – racconta – non ero riuscito a salvare quei pazienti, mi sembrava di non aver fatto abbastanza per salvarli». Pensieri che nessuno pensa, fuori da lì. Ma chi ci è passato fatica a lasciarli andare e a comprendere quanto siano sbagliati e quanto invece loro - medici, infermieri, operatori di ogni specialità - abbiano fatto, tanto, di più. Al «Pesenti-Fenaroli» due anni fa hanno fatto tutto quel che si poteva. Eroi. Qualcuno sbuffa a sentirli definire così. Vai a capire.

Il dottor Pierpaolo Mariani, primario di Chirurgia, in quei giorni di morte disse che il medico non l’avrebbe più fatto. Invece. Anche la sua voce oggi è diversa, non c’è più la fatica di allora. Ma la senti, come un rumore di fondo, e lui non si vergogna a lasciarla affiorare. «Oh sì, è passato. L’uomo è programmato per andare avanti e per andare avanti occorre lasciare alle spalle ciò che è stato. Ma non dimentichiamo. Oggi abbiamo tutto quel che serve per curare e un bagaglio di esperienza enorme. Allora cosa avevamo? Se dici che la carezza alla testa di un malato è stata a volte l’unica cura, purtroppo insufficiente, pensano che esageri. Invece era così. E anche se ora abbiamo medicine e terapie sono convinto, siamo convinti che la carezza resta una grande medicina. Come la fiducia che la gente ha continuato a riporre in questo ospedale: è stata per noi una vera terapia. Oggi si lavora bene, ho un’équipe straordinaria, quei mesi ci hanno legato. A volte ci fermiamo e ricordiamo. Come fai a dimenticare la signora Maria che, sola come tutti i pazienti che popolavano il nostro ospedale quella primavera, prende il tuo telefono, telefona al marito, gli dice che lo ama, e qualche giorno dopo muore? Il tempo guarisce e consola, la ferita non è più infetta, ma la cicatrice è sempre qui, anche se quando sei nato medico, medico sei per sempre».

Il ricordo

Due anni fa esatti come oggi era domenica ed Emanuela Todeschini era a casa con il marito e i due figli a San Paolo d’Argon. Sono le 13,30 circa, pronti per la sfilata di Carnevale, che non ci sarà. Suona il cellulare di Emanuela. È il capo: Adriana Alborghetti coordina le professioni sanitarie dell’Asst Bergamo Est. Lei è a casa malata, non può muoversi. Chiama Emanuela: «Ad Alzano c’è un tampone positivo, puoi rientrare?».

La sera prima, sabato 22, Alzano chiede un tampone per Ernesto Ravelli. Il giorno dopo arriva l’esito: è quello. Il Covid di Ravelli è sul tavolo del «Pesenti-Fenaroli» attorno a mezzogiorno. Alle 14 Emanuela, responsabile di presidio delle professioni infermieristiche, entra all’ospedale. Gli occhi sopra la mascherina oggi raccontano cosa trovò. Era domenica, giorno generalmente abbastanza tranquillo in ospedale, senza il «traffico» degli ambulatori, senza il personale amministrativo, il servizio prelievi. «Sono arrivata in ospedale alle 14 e ne sono uscita alle 22». Un’ora dopo, pressapoco, muore Ernesto Ravelli che nel frattempo era stato trasferito di corsa in terapia intensiva al «Papa Giovanni». Il primo morto ufficiale di Covid in Bergamasca.

«Non riesco nemmeno a trovare la parole per raccontare quella giornata» dice Todeschini. Il lunedì non sta bene, niente febbre, ma dolori e quelli che solo dopo qualche giorno vengono identificati come i sintomi specifici del Covid: niente gusto e olfatto. Passa più o meno una settimana e il «Pesenti-Fenaroli» è stravolto: tutti i reparti trasformati nel primo argine alla marea che ha inondato la Valle Seriana. Todeschini ha in capo la riorganizzazione del personale infermieristico e Oss, oltre al lavoro di implementazione dei dati da trasferire per fotografare lo stato della marea, l’approvvigionamento dei dispositivi di protezione, i turni, il personale che si ammala, il ricalcolo costante delle forze su cui poter contare, un lavoro colossale mentre medici e infermieri non sanno più nemmeno da che parte girarsi.

Solo due anni fa, ma in quest’ospedale che non si è mai fermato, e nemmeno mai arreso, è passata un’era. Nel reparto Covid la serenità di oggi è, anche, il frutto di quella immane tragedia : «Abbiamo capito che la medicina può fare molto, ma l’umanità di più» sigla Mariani, che non voleva più fare il medico. Ma abbiamo resistito, la tempesta è passata, anche per lui.

© RIPRODUZIONE RISERVATA