Il sogno realizzato in Brasile
Ma che nostalgia per Bergamo

di Elena Catalfamo

Fare il «contabile» non faceva per lui, e così Francesco ha messo in valigia la sua laurea in Economia e commercio all’Università di Bergamo, la gavetta negli studi da commercialista ed è volato in Brasile

Fare il «contabile» non faceva per lui, e così Francesco ha messo in valigia la sua laurea in Economia e commercio all’Università di Bergamo, la gavetta negli studi da commercialista –ed è volato in Brasile, per fare l’imprenditore. Dopo cinque anni nello stato di Minas Gerais, sente un po’ di quella «saudade» portoghese, la nostalgia mista a malinconia tipica di quelle latitudini, per la sua città d’origine, Bergamo, ma per ora è convinto: non tornerebbe indietro.

«Prima mi sono dato al commercio di caffè, poi all’allevamento di bovini, all’import-export di prodotti italiani e infine mi sono lanciato nel mondo delle costruzioni», racconta Francesco Locatelli, 47 anni, che ha fatto del rischio d’impresa uno stile di vita, in questi giorni in città per riunirsi con la famiglia. Un ritorno per trovare gli amici, riabbracciare i genitori, rivedere le bellezze italiane («rosse» comprese), per poi tornare in Brasile giusto per la finale dei Mondiali.

Ma com’è finito in Brasile?

«Per amore. Ho conosciuto una brasiliana e ho deciso di seguirla nel suo Paese. È così che sono arrivato a Patos de Minas, nello Stato di Minas Gerais. È una città di 130 mila abitanti, più o meno come Bergamo, a 400 chilometri a sud di Brasilia. Siamo lontani da San Paolo: nel Sud la gente vive ancora di una mentalità quasi contadina. Ci sono i grandi allevamenti di bestiame e le coltivazioni di caffè. Per inciso, l’amore è finito, ma io sono rimasto lì».

Un salto oltreoceano che l’ha costretta a lasciare il suo lavoro di commercialista…

«Per la verità era da tempo che cercavo un cambiamento. Ho studiato Economia e fatto pratica da commercialista ma ho capito ben presto che non faceva per me. Mi sentivo un po’ un contabile amministrativo, ero un libero professionista costretto a fare il dipendente ma senza i privilegi di un impiego fisso, pagato poco… Insomma ce n’era abbastanza per cercare una svolta. E il mondo dell’imprenditoria mi ha sempre attirato. Non avevo mai avuto esperienze all’estero e non ci pensavo neppure ad averne. Quando sono arrivato in Brasile ho valutato diverse strade imprenditive: dall’allevamento di bovini alla produzione di caffè. Poi però ho puntato su qualcosa che conoscevo meglio: le costruzioni grazie all’esperienza maturata anche con la famiglia Pandini e all’amicizia sincera con un professore di matematica brasiliano, esperto immobiliarista».

Che cosa significa fare l’imprenditore in un Paese che non si conosce?

«Be’ non è facile capire soprattutto di chi ti puoi fidare. Un europeo o un americano di solito sono considerati i ricchi, pieni di soldi. Molti ti propongono in buona fede i loro progetti ma non gli danno poi la continuità, non si impegnano fino in fondo per il raggiungimento degli obiettivi, tanto sanno che al massimo, se si andrà in perdita, ci penserà qualcun altro a saldare il conto. Ma non è così che si fa».

Proprio in questi giorni a Belo Horizonte, la capitale dello Stato di Minas Gerais, è caduto un viadotto, causando anche dei morti, che ne pensa?

«Insisto molto sulla qualità nelle costruzioni, ma non c’è questa cultura. Non si comprende ancora la differenza tra una buona costruzione e una cattiva. Le materie prime ci sono, ma manca la tecnica: è difficile trovare le maestranze preparate per esempio. Efficienza, qualità e impegno sono doti bergamasche non comuni. Il senso del lavoro è differente: per loro - ma non voglio generalizzare troppo - in fondo è una perdita di tempo, non una realizzazione di sé come per noi. La vita è breve, perché perderla lavorando? Il lavoro deve dare guadagno nel minor tempo possibile».

Quella di Belo Horizonte era una delle grandi opere costruite per i Mondiali: che clima si respira in Brasile per l’evento calcistico internazionale?

«I miei amici brasiliani, prima di partire, mi dicevano - forse però è solo scaramanzia - che speravano che il Brasile non vincesse la Coppa del Mondo perché la festa avrebbe oscurato tutte le storture di questi Mondiali, in primis il grande spreco di risorse economiche. In Brasile mancano scuole, infrastrutture, ospedali, sicurezza. È sempre stato così: nessuno era abituato neppure a protestare. Esiste una sorta di fatalismo rispetto alla vita. Solo in questi ultimi tempi i giovani scendono in piazza e si vede un risveglio di una coscienza civile».

Che cosa guarda un brasiliano quando compra casa?

«Chiede sempre se c’è l’ascensore e un parcheggio doppio: sono due elementi di status symbol».

Che cosa ha imparato dai brasiliani?

«Il senso della festa, dello stare insieme, del divertirsi. Anche se è sempre velato un pochino di malinconia per le tante cose che non vanno».

Come le sembra Bergamo quando rientra per le vacanze?

«Meravigliosa, tutto sembra funzionare alla perfezione. In Brasile ci sono problemi di ogni genere: la sicurezza per esempio. A Patos de Minas ci sono stati 39 omicidi in un anno, più che in Calabria. Il 99% sono connessi al traffico di droga. Un altro problema sono le infrastrutture: la strada che collega Belo Horizonte con Rio de Janeiro è a quattro corsie, senza divisori tra i sensi di marcia, ci sono 13 volte più incidenti stradali che a Bergamo. Le ferrovie ricoprono 20 mila chilometri contro i 300 mila italiani in un Paese gigantesco. La qualità dell’istruzione è molto bassa: il titolo universitario si consegue in gran parte grazie alla frequenza alle lezioni. Le cure mediche sono accessibili per pochi in un Paese in cui il 2-3% della popolazione concentra il 70% della ricchezza nelle sue mani. Bergamo? Meravigliosa, ve lo assicuro. L’Italia? Stra-efficiente».

Che cosa ha fatto in questo mese in Italia?

«Sono stato con la famiglia e ho girato un po’ per fare il pieno delle bellezze artistiche italiane. Sono stato anche a Maranello, alla Ferrari. Sono appassionato di automobilismo e delle “rosse”. Mi affascina molto anche la storia imprenditoriale di Enzo Ferrari. Aveva perso il padre, si ammalò di pleurite, il suo curriculum fu stracciato dalla Fiat ma la sua passione per i motori non l’ha fermato e da una piccola officina ha fatto nascere un mito. Penso che l’Italia si svaluti troppo e sia troppo concentrata su se stessa, un po’ provinciale: non valorizza le sue eccellenze dal settore alimentare alla moda, al turismo fino alla cultura. Ci è più facile indossare una polo di Ralph Lauren che non una bella camicia di sartoria italiana».

IL PROGETTO BERGAMO SENZA CONFINI

Essere più vicini ai bergamaschi che vivono all’estero e raccogliere le loro esperienze in giro per il mondo: è per questo che è nato il progetto «Bergamo senza confini» promosso da «L’Eco di Bergamo» in collaborazione con la Fondazione della Comunità Bergamasca. Per chi lo desidera è possibile ricevere gratuitamente per un anno l’edizione digitale del giornale e raccontare la propria storia. Per aderire scrivete a: [email protected].

© RIPRODUZIONE RISERVATA