La storia: Luigi, una vita da barista
«In pensione? Mai, qui c'è il mondo»

«Vede, sono malato. Quelli come me che lavorano troppo, lavorano sempre, arrivano all'età della pensione e scoprono che non sanno fare altro. Sono malati di lavoro. E allora devono andare avanti». Luigi Acquaroli parla dietro il bancone del bar.

«Vede, sono malato. Quelli come me che lavorano troppo, lavorano sempre, arrivano all'età della pensione e scoprono che non sanno fare altro. Sono malati di lavoro. E allora devono andare avanti». Luigi Acquaroli parla dietro il bancone del bar, la giacca azzurra con il risvolto blu, lo straccetto in mano. Non si ferma mai.

È un momento di calma nel bar di via Broseta. Ma Luigi Acquaroli, 68 anni compiuti da poco, non ha tregua: i bicchieri, le tovagliette, i tavolini, i giornali da sistemare, il bancone da lucidare, il pensiero degli aperitivi. «Sono nato a Loreto, qui a duecento metri. C'erano le cascine, la campagna. La sera con i bastoni andavamo a spingere le mucche verso le stalle e giocavamo a calcio per strada. A Loreto il mondo è cambiato al principio degli Anni Sessanta, quando hanno venduto i terreni e hanno cominciato a costruire i condomini... A 13 anni sono andato a fare il pasticciere».

Il locale di Luigi Acquaroli si chiama «Alex Bar», sta all'incrocio tra via Enrico Toti e via Broseta. Luigi «vive» qui da ventotto anni. Racconta: «Apro alle sei, chiudo la sera alle otto. A pranzo faccio una pausa. Al mattino mi dà una mano mia moglie. La domenica lavoro solo al mattino. Non so stare senza il bar. Ho tre figli, tutti e tre laureati, devo ringraziare mia moglie».

Il bar cominciò a infiltrarsi nelle vene di Luigi quando, a 14 anni, lasciò la pasticceria di via Moroni per la Torrefazione Lombarda di via XX Settembre. «Non penso che andrò mai in pensione. Il bar è un grande amore. Gente che va, gente che viene. Il cliente delle sei del mattino che va a Milano, l'impiegata che prende il cappuccino alle otto e mezza, la coppia di anziani che chiede l'aperitivo. Nel bar passa il quartiere, la città. Non posso rinunciare».

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