Parenzan: «Mi davano del matto
ma ho salvato i bambini blu»

Un'attitudine innata, radicata nel Dna da sempre: quella della cura dei bambini, dei malati più piccoli, fragili e bisognosi. Si perde nei tempi l'attenzione che l'ospedale bergamasco ha avuto per i fanciulli. Ecco la storia di Lucio Parenzan.

Un'attitudine innata, radicata nel Dna da sempre: quella della cura dei bambini, dei malati più piccoli, fragili e bisognosi. Si perde nei tempi l'attenzione che l'ospedale bergamasco ha avuto per i fanciulli. Già nel tardo Medioevo, allo «Spedale San Leonardo» i padri Crociferi accoglievano i piccini, abbandonati da chi li aveva dati alla luce.

Poi, a metà del Cinquecento il compito di dare riparo agli esposti venne affidato alla prima grande struttura sanitaria che sorgeva ai piedi di Città Alta, lo «Spedale grande della Santissima Vergine e di San Marco». Ma è alla Conca di Santa Lucia, dove nel 1930 verrà inaugurato l'«Ospedale Maggiore Principessa di Piemonte», che tra gli anni '60 e '70 prorompe la vocazione della sanità orobica.

Un camice bianco, contro ogni logica del momento, inizia la sua lotta contro le malattie più pericolose per gli infanti, quelle cardiache. Patologie che cambiavano il colore della pelle, non più rosea come dovrebbe essere alla nascita, ma scura. Erano i bambini blu: i bambini blu salvati da Lucio Parenzan.

Quarant'anni, origini goriziane, un primariato in Chirurgia pediatrica a Trieste, nel 1964 arriva a Bergamo: «Era marzo - ricorda il medico -, dissi che volevo creare la Chirurgia pediatrica. Tutti mi davano del matto. Ma ce la feci. Mi diedero una parte dell'Ortopedia, una sala operatoria in comune con un altro medico, due camere con quattro letti ciascuna, più una stanzetta che avrebbe dovuto essere per le infermiere, io invece la trasformai in una nursery per i bimbi più piccoli. Misi insieme lo staff e, grazie a vari contributi, compreso il mio, comprammo la prima macchina cuore-polmone».

Lucio Parenzan, dopo due anni negli Stati Uniti e due mesi di Svezia, aveva un curriculum importante, ma poca esperienza. Tuttavia fu ben accolto dalla comunità: «Portai a Bergamo una Chirurgia pediatrica moderna - dice -. I pazienti con ernie inguinali, per esempio, che prima venivano tenuti in reparto una settimana, noi li mandavamo a casa in ventiquattr'ore. Ci fu grande sensibilità da parte del presidente dell'ospedale, che capì che i piccoli pazienti non potevano patire il caldo, così ci fornì subito dei climatizzatori, a quel tempo costosi».

Il dottore dei bambini blu ruppe gli schemi a partire dai gesti quotidiani («Avevo buoni rapporti con i colleghi, in particolare con un radiologo. Invece di mandargli la richiesta dei raggi, andavo personalmente con il bimbo. Non lo trattavo come fotografo, ma come medico che faceva radiografie») e da un atteggiamento in quel periodo insolito («Io non camminavo in modo regale come alcuni colleghi, non mettevo il camice di lana. Io ero sempre di fretta, ero in corsia anche di notte. Dalla Casa Rossa, a cui avanzavo continuamente richieste, non ero proprio ben visto»).

Per questo, oggi, dopo cinquant'anni ha ancora un sassolino nella scarpa: «Allora dopo due anni di lavoro il cda inviava una lettera di ringraziamento e di complimenti. Era di routine, io invece non la vidi mai». Le innovazioni che fecero epoca furono racchiuse nelle grandi azioni, nel superamento di convinzioni superate: «Dopo pochi mesi dal mio arrivo, avevo deciso di fare dell'Italia la mia America e organizzai un congresso internazionale sull'urologia e le cardiopatie congenite del bambino piccolo. Arrivò a San Pellegrino il Gotha della medicina, 300 studiosi da tutto il mondo».

Causò anche un terremoto mediatico quando decise di portare il bisturi in televisione: «Operai per otto ore in diretta Pasqualino, un bimbo di cinque mesi affetto della più tremenda delle malformazioni congenite, la tetralogia di Fallot. Con l'équipe si scherzava che dovevamo avere un aereo pronto per espatriare in caso qualcosa non fosse andato per il verso giusto. E quando fu il momento di far ripartire il cuore, per dieci secondi rimase fermo. Fu il panico, ma poi iniziò a battere».

Divenne un intervento spartiacque: «Dimostrò - chiude - che la Cardiochirurgia doveva essere concentrata nei primi mesi di vita perché alcune patologie congenite, se si protraggono nel tempo, possono solo peggiorare». A quell'epoca i grandi luminari ritenevano impossibile operare i pazienti sotto l'anno di vita. Parenzan, l'uomo dei bambini blu, la pensava diversamente.

Elisa Riva

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