Il ritratto di Titta Pasinetti
Dribblò Maradona e anche Montanelli

Maradona era furibondo. Quella domanda sulle sue presunte amicizie camorriste non se l'aspettava, men che meno durante la conferenza stampa planetaria alla vigilia di Italia-Argentina (Mondiali del '90)....

di Giorgio Gandola

Maradona era furibondo. Quella domanda sulle sue presunte amicizie camorriste non se l'aspettava, men che meno durante la conferenza stampa planetaria alla vigilia di Italia-Argentina (Mondiali del '90). Fece finta di non sentirla. Ma una decina di minuti dopo la stessa voce ripeté le stesse parole una, due, tre volte. Il re del calcio non riuscí a dribblarle e uscì di testa. Si alzò e cominciò a inseguire per la sala quel giornalista impertinente che invece di occuparsi di 4-4-2 e di fuorigioco pretendeva di saperne di più su cocaina, doppia vita e amicizie pericolose. Maradona scattò in tuta e con lui i suoi tre o quattro tirapiedi mescolati tra la folla dei cronisti, con una gran voglia di menare le mani. Non l'avrebbero mai preso, Titta Pasinetti sapeva essere come Zorro. Voleva semplicemente far capire alla stampa mondiale che lo scenario del campione non era solo colpi di tacco, miliardi, zucchero filato. E ci riuscì.

Titta era l'enfant prodige di una redazione speciale, quella sportiva al Giornale negli anni '90. Scriveva divinamente ed era un uomo leale. Solista della penna impossibile da recintare perché, come dice Chandler, «fatto della stessa materia di cui sono fatti i sogni». Era un soffio di vento, arrivava e scompariva, sempre a caccia di notizie e forse di se stesso. Al rientro dalle ferie, come i campioni sudamericani quando devono tornare dopo le vacanze o semplicemente dopo un'amichevole con la nazionale, perdeva regolarmente il traghetto del 14 agosto. Ma noi lo sapevamo e ci ingegnavano a sostituirlo in redazione, sicuri che alla prima occasione avrebbe ricambiato. Sapeva ascoltare, sapeva stupire, forse per questo era sempre circondato da donne bellissime. Spiegava così: «Tutta fortuna. Se tu parcheggi in piazza del Duomo ti portano via la macchina. Se parcheggio io porto a cena la vigilessa». Faceva impazzire l'amministrazione quando, a rimborso d'un viaggio, presentava la ricevuta del noleggio di una Vespa. E invece del giustificativo d'una cena presentava quello di un vasetto di Nutella o di tre Mars.

Un giorno fece impazzire anche Indro Montanelli, che pure lo adorava perché in lui riconosceva quella genialità, quella capacità di smarcarsi dallo schematismo impiegatizio e dalla forza dell'abitudine, da sempre merce rara anche in una redazione. Titta era al Giro d'Italia, i telefonini non esistevano, i ladri d'auto invece sì. Aveva scritto l'articolo a macchina e stava per dettarlo ai dimafonisti dalla cabina della Telecom quando qualcuno lo avvisò che era partito l'antifurto della sua Golf Gti. Allora appese la cornetta (senza mai dettare il pezzo) e corse allarmato verso l'auto, trasformata in una casa ambulante per meglio seguire la corsa. La macchina c'era, i bagagli pure, le incombenze professionali erano state portate a termine (questo era il suo convincimento). Non restava che partire per la prossima tappa. Noi in redazione non avremmo mai ricevuto quell'articolo. Lo aspettammo sino a tarda sera, quando la direzione ci impose di mettere l'Ansa. Il Giornale arrivò in rotativa in ritardo per colpa di quel disguido e Montanelli s'infuriò. «Portatemi Pasinetti, lo licenzio». Al termine del Giro, Titta scese nel sancta sanctorum del direttore convinto che sarebbe stato il suo ultimo giorno di lavoro. Montanelli gli chiese: «Cos'hai da dire a tua discolpa per una simile fesseria?». Lui ci pensò un attimo e con il più disarmante candore rispose: «Niente. Non posso neppure inventarmi che avevo finito la carta. Era la tappa di Fabriano». Il Grande Vecchio sorrise, il Grande Titta anche.

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