Bologna, la strage del 2 agosto 1980
85 uccisi dalla bomba - Foto e Video

Due agosto 1980: era sabato, un caldo sabato di esodo. Le code in autostrada dovevano essere, come da «copione» collaudato del periodo, l’argomento del giorno per quotidiani e tg. A metà mattina, invece, un’esplosione alla stazione centrale di Bologna spezzò nel sangue la tranquilla routine del rito delle vacanze, rigettando il Paese nell’incubo del terrorismo: 85 morti e 200 feriti il bilancio finale della strage più sanguinaria nella storia italiana.

Alle 10,25 (l’ora della tragedia rimarrà impressa, come ricordo incancellabile, nelle lancette ferme del grande orologio che si affaccia sul piazzale della stazione) un boato squarcia l’ala sinistra dell’edificio: la sala d’aspetto di seconda classe, il ristorante, gli uffici del primo piano si trasformano in un cumulo indistinto di macerie e polvere.

Rimane colpito anche il treno Adria Express 13534 Ancona-Basilea, fermo sul primo binario. Pochi istanti, interminabili, e fra nuvole di detriti si cominciano a intravedere immagini di corpi devastati, feriti in condizioni disperate, taxi in attesa nel parcheggio esterno trasformati in bare dalle lamiere informi. Nel ristorante-bar self service perdono la vita sei lavoratrici. Ovunque lacrime, choc, urla strazianti. E poi polvere, tanta polvere, che entra in gola e soffoca il pianto smarrito di passeggeri che aspettavano solo di partire per le vacanze o per riabbracciare i familiari. Molti, ora, cercano solo di ritrovare voci e volti di parenti e amici. Comincia un’opera ininterrotta, interminabile, per i tantissimi soccorritori, una catena spontanea che in pochissimo tempo rimette in moto una città che stava «chiudendo per ferie».

Inizia anche la conta della vittime: la più piccola è Angela Fresu, appena tre anni, poi Luca Mauri di 6, Sonia Burri di 7, e via via fino a Maria Idria Avati, di ottant’anni, e Antonio Montanari, di 86, in una tabella di morte che cancella persone di ogni età, provenienza, storia di vita. Interviene anche l’Esercito, mentre il silenzio irreale del centro città è squarciato senza tregua dalle sirene di ambulanze, vigili del fuoco, forze dell’ordine. Un bus Atc della linea 37 diventa simbolo di quel 2 agosto perché si trasforma in un improvvisato carro funebre che fa la spola con la Medicina legale di via Irnerio, a poca distanza, per trasportare le salme. Una surreale corsa diretta stazione- obitorio. Le ambulanze servono invece per i vivi, che vengono smistati in tutti gli ospedali, dove rientrano in servizio medici e infermieri.

«Mi dissero di portare via i cadaveri con il bus - è la testimonianza di Agide Melloni, autista di quella vettura Atc 4030 - Dal mattino alle tre di notte, con i lenzuoli bianchi ai finestrini. Ma in ogni viaggio c’era sempre qualche soccorritore con me, per sostenermi». Le prime ipotesi investigative parlano dello scoppio di una caldaia ma nel punto dell’esplosione non ci sono caldaie, e la fuga di gas viene presto scartata per lasciare spazio alla vera causa della strage: una bomba ad alto potenziale. In stazione arriva, commosso e impietrito, il presidente della Repubblica Sandro Pertini.

Quella stessa sera piazza Maggiore si riempie di bolognesi, attoniti e sgomenti. La città si ritrova nel lutto e da subito chiede la verità, sei anni dopo un’altra strage estiva, la notte dell’Italicus, sull’Appennino bolognese: 4 agosto ’74, 12 morti e 44 feriti. A tarda notte alla Medicina legale, dove le celle frigo sembrano non riuscire a contenere cosi’ tanti cadaveri, un maresciallo dei carabinieri continua a tentare di dare un nome a quei corpi. L’identità di vite dissolte, affidata a volte solo a brandelli di indumenti, ad un anello, a quello che rimane di un documento.

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