«Heysel: lo stadio, la folla, il terrore»
Un lettore racconta. Continuate a scriverci

Nuova testimonianza sulla tragedia dell’Heysel: 39 tifosi (32 italiani) morirono in una ressa scatenata dagli hooligans del Liverpool a Bruxelles prima della finale di Coppa Campioni tra gli inglesi e la Juventus. Un altro lettore ha scritto per raccontare gli attimi terribili di quel 29 maggio 1985. Continuate a inviarci i vostri ricordi scrivendo a [email protected]

«Avevo 15 anni in quel 29/05/1985 – scrive Dario Rosselli – Partii con un volo da Palermo, la mia città, ed atterrai ad Ostenda. Viaggiavo con altri tifosi juventini anche se non conoscevo praticamente nessuno. Potrebbe sembrare una pazzia lasciar partire da solo un “ragazzino” di 15 anni, ma io ero tutto fuorché un ragazzino. Fisicamente ero un bisonte ed avevo una maturità che gente molto più adulta di me si sognava. La Juve era una passione ma era solo la seconda volta che andavo a vederla dal vivo. Avevo pregato mio padre fino allo sfinimento per lasciarmi andare e avevo pagato il biglietto con i lavoretti di tutto un inverno, alternandoli allo studio, dove eccellevo per i miei voti».

VIDEO - Attenzione: contiene immagini molto crude, la visione è consigliata a un pubblico adulto.

«Quando fummo nei pressi dello stadio – continua – corsi verso i cancelli d’ingresso, ma prima mi fermai per scambiare le sciarpe con gli inglesi e comprare qualche ricordo alle bancarelle. Lì fuori tutto era tranquillo. Gli inglesi scherzavano e bivaccavano sui prati a bere qualche birra. Qualcuno era ubriaco ma nessuno era molesto. Alle 19.00 varcai i cancelli e ricordo che mi fu tolta l’asta della mia bandiera. Accettai senza protestare e vidi che in terra c’erano accendini, monetine, bottigliette e qualunque cosa potesse essere lanciata dagli spalti. Un venditore di hot dog si era piazzato all’interno e arrivava un profumo delizioso. Lo stadio era già colmo, sia nella curva z dove ero appena entrato, sia in quella opposta, occupata dai tifosi della Juve. La mia prima reazione fu di incredulità: mi avevano venduto i biglietti della curva sbagliata, ma tant’è che ormai ero lì e non si poteva fare altrimenti. Puntai verso il basso per avvicinarmi di più al campo. Lo stadio era come scavato dentro una collina, per cui all’ingresso si era nella parte superiore e per avvicinarsi al campo ed avere una visuale migliore bisognava scendere».

«Erano le 19.15 quando mi trovai nella pancia della folla – prosegue la lettera –. Fu un attimo e in quell’attimo tutto divenne irreale. Un’ondata mi sollevò staccandomi da terra e poi l’effetto di ritorno mi mise di nuovo coi piedi per terra. La scena si ripetè tre volte e prima ancora che tutto mi fosse chiaro un signore con cui avevo viaggiato e con cui avevo stretto un’amicizia spontanea, mi disse: torniamo indietro, subito! Non chiesi, non dissi, ma spinsi. Spinsi in senso contrario. La gente ci veniva addosso ed io con tutta la forza dell’atleta che ero, li respingevo ed avanzavo nuovamente verso i cancelli d’ingresso. In quei due minuti non era rimasto più nulla di ciò che avevo visto prima. Non c’era più un poliziotto. Il carretto degli hot dog rovesciato, la rete da pollaio che divideva gli inglesi da noi era divelta. Volavano pietre, che poi capii trattarsi di pezzi di cemento che si staccavano battendo forte i piedi sui gradini. Nell’aria una nuvola di fumo rendeva difficile respirare ed il suono era assordante. Le grida, i nomi chiamati a squarciagola insieme alle richieste di aiuto. La confusione totale.

«Un veloce sguardo intorno mi fece capire che eravamo in bocca ai leoni. Belve assetate di sangue che correvano per caricare munite di spranghe di ferro divelte dagli spalti. Un poliziotto mi corse accanto, inseguito dagli hooligans che lo raggiunsero e gli tolsero manganello caschetto e pistola dopo averlo pestato. In quel momento andai in panico. Pensai che se erano armati e così crudeli, potevano fare una stage... Al cancello d’ingresso capii che fuori poteva esser peggio che dentro. Non c’era via d’uscita e le forze erano sproporzionate. Loro erano migliaia... D’un tratto la salvezza si materializzò in una intercapedine fra due muri. Uno spazio largo appena mezzo metro, ma dentro v’erano già altri. Provai ad entrarci anch’io e seppur per pochi centimetri ero dentro, seminascosto ma ancora alla mercé di chi avesse voluto colpirmi».

«Terrore, ecco cosa provai. Il panico mi aveva paralizzato. Dinnanzi a me scene raccapriccianti di una violenza inaudita. Rimanemmo stretti in quella intercapedine per un quarto d’ora, poi tutto cessò con l’arrivo di un manipolo di poliziotti in assetto da guerra. I morti, alcuni, erano ancora li, in terra. Pian piano qualcuno venne a prenderli e sul terreno degli spalti rimasero solo macerie. Scarpe, sciarpe, bandiere, sacchetti di plastica, trombette, qualche brandello di indumento, una gran quantità di zainetti, occhiali rotti, cappellini e calcinacci. Come se fosse passato un uragano. Il muro di cinta era venuto giù e si apriva uno squarcio sulla pista di atletica. Anche le inferriate che avrebbero dovuto impedire l’accesso dei tifosi al campo erano totalmente divelte.

«Trovammo posto su un terrazzino sopra il muro di cinta e insieme ad altri cinque o sei italiani, presidiammo gli angoli con delle spranghe di ferro, pronti a rintuzzare eventuali attacchi, ma ormai le belve si erano chetate. Non ci guardavano nemmeno. Eravamo allo zoo con i leoni ma quelli in gabbia eravamo noi e loro avevano l’atteggiamento della belva che ha già mangiato a sazietà. Un’ora e mezza dopo, quando ormai il sole era tramontato, la partita iniziò con nostro sollievo. Fuori intanto giungeva l’esercito. Migliaia di soldati circondarono l’area. Ci fecero cenno di scendere e costruirono un robusto cordoni intorno a noi. Vedemmo la partita e forse esultai pure al gol. La mente umana è strana...»

«A fine partita tornai al pullman e solo quando fui dentro, per la prima volta, scoppiai in un pianto a dirotto. Quel che avvenne dopo non fu più tragico ma, se possibile, mi fece ancor più schifo. Cercammo un posto da dove chiamare casa ma tutti ci cacciavano via. Non un albergo, non un bar, non un qualsiasi posto pubblico era disposto a farci entrare. Tornammo allo stadio e andammo in sala stampa. Eravamo certi che li ci fossero telefoni e disponibilità, invece, ci trattarono come animali. Io parlavo il francese e cercavo di mediare ma la gendarmerie belga non voleva sentire ragione. Alla fine ci concessero una telefonata a testa ma ben prima che venisse il mio turno ci sbatterono fuori perché un ragazzo di vent’anni si era dilungato al telefono con la mamma».

«Intorno alle quattro del mattino fummo in aeroporto, ancora ad Ostenda. Eravamo assetati, affamati, distrutti dalla fatica, feriti, e con i vestiti strappati, eppure nessuno ci tese la mano. Al bar dell’aeroporto i pochi panini venivano venduti a prezzi esorbitanti. Stavano facendo la cresta sulla nostra disgrazia. Ancora una volta col mio francese mi feci paladino di quelle centinaia di persone maltrattate e pretesi, riuscendovi, che tutto il cibo e l’acqua ci venisse data con quei pochi soldi che avevamo e per alcuni gratuitamente. I negozianti non erano d’accordo e dovette intervenire la polizia, ma Ostenda è in Olanda e la polizia di li fu molto più accondiscendente. I fatti ormai erano noti, noi eravamo le vittime, non i carnefici. Così oltre il cibo arrivò anche la possibilità di chiamare casa. Erano le sei e lascio solo immaginare cosa stessero passando nelle nostre case. Prima di imbarcarci l’ultimo ricordo fu il vedere arrivare una ragazzo che in andata aveva viaggiato con noi. Aveva la testa fasciata, la camicia strappata ed era rimasto senza scarpe. Ci venne incontro e ci chiese dei soldi per pagare il taxi che lo aveva portato sin li. Era scappato dall’ospedale dove i poliziotti belgi volevano trattenerlo per invasione di campo! Per tanti anni non ho più messo piede allo stadio

«Questa la mia testimonianza di quel che accadde quel giorno – conclude Rosselli –. Le immagini le rividi solo qualche mese dopo. Non ne parlavo con nessuno perché non sarebbero potuti andare oltre la morbosità di un racconto raccapricciante. Nel 2002 scrissi un libro, “Fuori dallo stadio” ma è l’unico che non ho mai pubblicato».

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