Le ragazze costrette in strada
Incinta al lavoro, non un solo caso

Irina non è stata l’unica «lucciola» ad abbandonare il figlio in ospedale subito dopo il parto. Secondo la Fondazione Gedama, c’è almeno un altro caso analogo a quello emerso durante l’indagine sul racket di albanesi. Prostituzione, la mappa delle gang. Clicca qui

Irina non è stata l’unica «lucciola» ad abbandonare il figlio in ospedale subito dopo il parto. Secondo la Fondazione Gedama di Ponte San Pietro, da anni impegnata nell’assistenza alle prostitute, c’è almeno un altro caso analogo a quello emerso durante l’indagine sul racket di albanesi smantellato mercoledì da procura e carabinieri.

Circa un anno fa, un’altra ragazza romena di 23 anni è rimasta fino all’ultimo giorno sul marciapiede nonostante fosse incinta: picchiata, aveva paura. Non ha abortito, a differenza dell’amica che «lavorava» dall’altra parte della strada. Assistita dai volontari di Gedama, ha deciso di portare a termine la sua gravidanza.

«L’abbiamo seguita e consigliata – spiega don Gianpaolo Carrara, presidente della Fondazione – accompagnandola anche nelle strutture di ascolto. E alla fine l’abbiamo portata all’ospedale di Bergamo». Dopo aver partorito, la giovane non ha però riconosciuto il figlio e l’ha lasciato nella culla del reparto.

Quando una prostituta resta incinta, il «codice» del racket impone l’aborto. Prima si risolve il «problema», prima si torna a lavorare. Una pratica che in alcuni casi diventa orrenda routine. Una trentenne nigeriana è arrivata a interrompere ben nove gravidanze in tredici anni di «mestiere».

© RIPRODUZIONE RISERVATA