Addio a Lucio Parenzan Parenzan
«Un americano a Bergamo»

di Alberto Ceresoli

Una cosa è certa: Lucio Parenzan non vorrebbe essere ricordato come il cardiochirurgo che nel 1985 fece il primo trapianto di cuore a Bergamo. «Non metto quell’intervento tra le “pionierate” che ho fatto».

di Alberto Ceresoli

Una cosa è certa: Lucio Parenzan non vorrebbe essere ricordato come il cardiochirurgo che nel 1985 fece il primo trapianto di cuore a Bergamo, il terzo in Italia. «Sono stato un pioniere dei trapianti – direbbe oggi il professore –, ma non metto quell’intervento tra le “pionierate” che ho fatto: ci metto invece la mia vita, questo è sicuro». E lo direbbe con quel suo inconfondibile «slang», impastato di intonazioni istriane, milanesi, bergamasche e molto, molto americane. Sì, perché l’America – per lui – è stata la chiave di volta, la prima delle due grandi «fortune» (come amava definirle) avute nella vita.

La seconda è la moglie Laura, e la «classifica» - se possiamo chiamarla così - l’aveva stilata proprio lui. «Due incontri mi hanno cambiato la vita - confidò un giorno - : l’America e mia moglie, proprio in quest’ordine. L’America, perché sono diventato un altro uomo, un altro chirurgo, un altro medico, perché ho imparato un altro modo di pensare. Mia moglie perché mi ha cambiato, perché ho trovato una donna eccezionale che mi ha dato quattro figli magnifici, perché si integra benissimo con me, perché è più intelligente di me, perché mi fa da guida».

Perché il professore - appassionato, testardo, a volte fin troppo aggressivo - in fondo al cuore era un «romanticone», uno dalla lacrima facile, capace di commuoversi guardando «La mia Africa» in televisione. Sarà stata la «dolcezza» infusagli sin da piccolo dalla madre Antonia, maestra elementare, preoccupata perché non lo vedeva crescere, tanto che tutte le mattine - «alle 10 in punto» - gli portava lo zabaione con i biscotti: «e tutti a controllare se mangiavo...».

Ma a quell’epoca aveva già preso «l’infezione della medicina», trasmessagli dal padre, Angelo, medico di famiglia di scuola austriaca (studi tra Vienna, Graz e Padova), che tutte le notti attraversava la camera da letto di Lucio («chissà poi perché mi hanno chiamato così, a me non è mai piaciuto...») per rispondere alle chiamate dei suoi pazienti.

Oggi può sembrare difficile da credere, ma la gioventù di Parenzan non è stata tra le più semplici, tra un papà perduto troppo presto (a soli 14 anni) e una guerra che, anche dalla quelle parti, tra il ’43 e il ’44, non guardava in faccia a nessuno. In mezzo, un lungo «esilio» al Collegio degli Scolopi di Firenze («tornavo solo a Natale, a Pasqua non avevo i soldi») per frequentare le medie, le superiori e il primo anno di Università, conclusa poi tra Milano e Padova. Fu negli ultimi anni della guerra che, per mantenersi gli studi, s’improvvisò commerciante di sale e di scarpe. A Pirano c’erano le saline, a Padova c’erano tanti maiali, e di sale, per fare i prosciutti, ne serviva molto. E le scarpe? Le prendeva a Padova e le vendeva a Parenzo, un paesino poco distante da casa, da dove poi ricominciava «il giro», non senza pericoli e peripezie.

Sarà anche per questo che girare il mondo non gli è mai pesato, nemmeno quando, nel ’56, lasciò Milano (poco più che trentenne, con una docenza universitaria in tasca «e una buona clientela pediatrica...») per andare in Svezia, all’Università di Stoccolma, e specializzarsi in chirurgia pediatrica. L’idea di lavorare sul cuore dei bambini gli venne lì, ma era un amore contrastato, gli piaceva anche l’urologia.

L’anno dopo, invece, andò a Pittsburgh, negli Stati Uniti. Quelli americani - tra il ’57 e il ’59 - furono anni fantastici: agli occhi di Parenzan si svela davvero un nuovo mondo. «Cento dollari al mese, 125 quando ero il capo. Mangiavamo dentro l’ospedale, dormivamo dentro l’ospedale, in tre in una camera, un letto singolo e uno “a castello”. Fuori, mai. Ho conosciuto tanti medici, tanti amici, statunitensi, canadesi, sudamericani, indiani, bianchi, neri... di tutto. Tante idee, tanti modi di vivere, tanti modi di pensare, persino tanti cibi diversi... Ma un’unica grande capacità di insegnare ai giovani».

Lui non ne è ancora del tutto cosciente, ma è lì che Lucio Parenzan comincia a diventare «il professore» che oggi tutti conosciamo. Intreccia amicizie e relazioni sincere con quelli che pochi anni dopo diventeranno alcuni tra i chirurghi e i cardiochirurghi più bravi e famosi del mondo.

È qui che il suo mondo comincia tingersi di blu. Ma non quello fantastico che Modugno canta a squarciagola dai teleschermi in bianco e nero della neonata televisione italiana, ma quello - ben più cupo e spento, cianotico - che colora la pelle dei bambini nati con una grave malformazione cardiaca, la tetralogia di Fallot, per la quale - nell’Italia di quegli anni - c’è ben poco da fare.

È per aver salvato la vita a questi bambini che il professore vorrebbe essere ricordato. Non solo dai bergamaschi, certo, ma soprattutto da loro, che - per molti anni - gli resero la vita difficile, non comprendendo sino in fondo il significato del suo lavoro. A Bergamo, dove venne nel ’64 dopo un primariato a Trieste, iniziò una vera e propria rivoluzione copernicana, la cui portata venne colta dalla città - un po’ troppo schiva e musona per un «americano» come lui - soltanto anni dopo. Per molto tempo il «prof» dissimulò, ma fu un cruccio che nemmeno il conferimento della cittadinanza onoraria riuscì a spazzar via completamente.

A Bergamo, Parenzan inventò la cardiochirurgia pediatrica italiana, ebbe l’intuizione che i «bambini blu» andavano operati subito, a pochi giorni di vita. E lo fece, con enorme successo. A Bergamo, Parenzan realizzò un reparto di così alto valore scientifico che costrinse gli americani a volgere lo sguardo alla nostra città. Di più: li portò qui, in sala operatoria e come relatori, in un paio di congressi ancora oggi memorabili, nel ’66 e nel ’70. Barnard, Pacifico, Kirklin, Cooley, Shumway, Yacoub, Subramanian - prima al «Maggiore», poi in «Gavazzeni», all’International Heart School - erano di casa a Bergamo.

Ma la città capì tardi e mai (forse) fino in fondo. Attiravano di più le liti «caserecce» con il rivale di sempre, Gaetano Azzolina: cinque anni all’arma bianca, sui giornali e sulle riviste di tutta Italia. «È stato uno sbaglio - ammise più tardi -, un errore: ci fossimo messi d’accordo saremmo stati due padreterni....».

Già, il Padre eterno. «Ci ho parlato qualche volta... Ma in sala operatoria non ho mai avvertito la sua presenza. Mi sarebbe piaciuto dire di si, ma no, non l’ho mai sentita, non ho mai avuto questo piacere... Credo sia un atteggiamento tipico del chirurgo: se le cose vanno bene, il Padre eterno non c’entra, è il chirurgo che ha fatto tutto; se non vanno bene, sarà stata colpa del Padre eterno. Mah... - scuote la testa -, non posso pensare che quando la gente muore sul tavolo operatorio la colpa sia del Padre eterno».

Chissà se in quei pochi minuti in cui una crisi respiratoria gli ha chiuso in faccia la porta della vita avrà avuto il tempo di pensare alla sua, di morte. Chissà... Forse gli è salito alla mente uno dei ricordi più cari di quand’era ragazzino, nella sua casa «a tre metri dal mare, con le persiane un po’ più grandi del normale... Mi alzavo presto la mattina per andare a giocare a tennis, poi all’una tornavo, stanchissimo, e mi sdraiavo sul letto. Rivedo ancora, come fosse adesso, il riflesso delle onde del mare filtrato da quelle persiane… e mi addormentavo...». Buon riposo, professore. Se lo merita.

Alberto Ceresoli

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