Catellani, l'artigiano della luce
Dal primo Turciù verso il mondo

«Nella vita ci vuole un po' di ironia e io ho saputo non prendermi sempre e troppo sul serio». Parole di Enzo Catellani. Forse è questo il segreto di Catellani&Smith, dal 1989 azienda di Villa di Serio simbolo a livello internazionale di design nell'illuminazione.



Prima di tutto spieghiamo le leggende che ci sono sul suo conto. Lui è sì stato un parrucchiere prima di prendere in gestione il negozio di lampadari «Aladino», poi diventato «Punto Luce», ed è vero, Smith altro non è che il nome del suo cavallo.

Enzo Catellani sorride: «Nella vita ci vuole un po' di ironia e io ho saputo non prendermi sempre e troppo sul serio». Forse è questo il segreto di Catellani&Smith, dal 1989 azienda di Villa di Serio simbolo a livello internazionale di design e avanguardia nel complesso mondo della produzione di illuminazione.

Ma a Enzo Catellani, 61 anni, di origine parmense e cresciuto nella Bergamasca, di design importa poco: lui è un uomo che vuole mettere le mani sui materiali, costruire la luce, raccontarla: «Mi piace plasmare la materia - racconta –, dare una visione personale alla luce, interpretarla».

E tutto, come sempre, è nato per caso: «E per necessità - spiega -. A 28 anni lascio l'attività di parrucchiere che avevo in via Ghislanzoni, a Bergamo. Volevo provare un'altra strada e prendo in gestione il negozio di lampade "Aladino". Lo trasformo in "Punto Luce", ma gli affari col tempo non vanno bene e inizio, un po' per far quadrare i conti e un po' per stanchezza della gestione commerciale e dei suoi dogmi di profitto, a creare lampade mie».

Ecco allora che il sottoscala del negozio, usato come centro per le riparazioni, si trasforma in laboratorio creativo: «Qui ho conosciuto la materia e mi sono approcciato al ferro: è nato così il primo Turciù». La lampada viene notata da distributori di Düsseldorf che la portano a Francoforte in fiera: «Ha successo e mi vengono chiesti 1.400 esemplari».

Inizia l'avventura, siamo nel 1989. Enzo Catellani si reinventa artigiano, con ironia, lasciando l'attività del negozio, ceduta al fratello Roberto a metà degli anni Novanta: «Tra i nomi altisonanti del design dell'illuminotecnica, con un amico mi invento il marchio Catellani&Smith dove Catellani è il semplice artigiano e Logan Smith, il mio cavallo, è l'architetto». E pensare che c'è ancora chi, da qualche parte del mondo, telefona a Villa di Serio e chiede, se il signor Catellani è impegnato, di parlare con l'architetto Smith.

«La mia creatività nasce da intuizioni e credo che per essere creativi si debba saper anche giocare» continua e il pensiero va ai nomi di alcune sue lampade: Turciù, Fil de fer, Stchu-moon, Olstrass. Nomi bergamaschi, bizzarri ma dal suono musicale «che ben rappresentano la nascita di quel prodotto». Prodotto che vive di artigianalità: solo sulla lavorazione del Fil de fer ci sono 14 artigiani dedicati per la modellazione del ferro, l'elettrificazione e l'imballaggio.

Migliaia di metri di filo di ferro attorcigliato: per una lampada di medie dimensioni, sui 60 centimetri di diametro circa, sono richiesti intorno ai 470 metri di filo, per una lavorazione di 7 ore ciascuna lampada. Un gran lavoro, che Catellani fa con amore e un po' di ironia: «Nel creare c'è intuizione, ma c'è anche lo stare sopra le righe». Anche se questo essere «disomogenei» non deve per forza essere una regola: «Diventerebbe una forzatura: anche nel creare luce serve concretezza».

Se non è in giro per il mondo, tra allestimenti che vanno da Parigi a Shanghai (la sua azienda nel 2010 ha fatturato 7,7 milioni, 6,7 nel 2009, con 50 dipendenti e una produzione tutta interna), è facile scovarlo nella sua «tana» a Villa di Serio: un vecchio mulino nel centro storico dove su spaziosi tavoli di legno e davanti a grandi finestre elabora e costruisce, monta e smonta pezzi, tra led, ferri vecchi, foto e ricordi di famiglia.

«Niente disegni - spiega risoluto -: immagino mentalmente e penso ai materiali che possano rendere fattibile l'opera. Poi inizio a sperimentare, creando un prototipo che poi viene testato». Niente stampi: «Uso forme elementari, prediligo materiali facili da reperire, non mi obbligo a una produzione seriale che mi trasporterebbe in quel vortice che ho sempre contestato quando facevo il commerciante: dover produrre quantità elevate che di conseguenza richiedono una commercializzazione massiccia».

«Io non cerco il mercato: è il mercato che chiama e se un prodotto non va è semplicemente perché non piace - continua -. Il mio obiettivo è restare piccoli pur crescendo, mantenendo un rigore artigianale e il gusto per una produzione che mette al centro il prodotto. Sarà banale, ma se lo sono dimenticati in molti: quello che fa il mercato è il prodotto».

E il prodotto di Catellani è arrivato fino all'altro capo del mondo: il Turciù più grande è stato realizzato per un hotel in Giamaica e ha 72 lampadine per 12 metri di altezza e 120 chili di peso. Più vicino a noi uno dei Fil de fer più grandi, 3 metri di diametro con 360 lampadine e 5 mila e 300 metri di filo impiegati, è in esposizione permanente nel giardino della Triennale.

Numeri stratosferici, anche se per Catellani queste lampade vogliono essere molto più di un filo attorcigliato: «La lampada fa "vivere" la luce e la luce scandisce la quotidianità di chi con quel bagliore vive. Identifica un abitato, trasforma uno spazio, crea emozioni». E questo modo di fare luce lo gratifica: «Mi piacciono questo lavoro e le sue sfide».

Ora c'è quella legata al risparmio energetico: «Sono quattro anni che faccio ricerca e l'uso del led è stata una rivoluzione: significa creare senza dover girare attorno al porta lampadina, interpretando nuove forme di luce». Catellani sorride ancora, in modo bonario, nel modo di uno che in testa ha ancora un sacco di idee e non vede l'ora di chiudersi nel suo studio, nel silenzio dei campi, per provare a montare e smontare i suoi pensieri.

«Sa - aggiunge -, c'è chi mi ha proposto di avventurarmi in altri settori, di pensare alla progettazione di oggetti di arredamento, ma io non posso proprio abbandonare la luce. Sarà banale, ma per me è la vita. Non è incredibile avere la possibilità di imporre la propria luce? È questa la scintilla che mi fa continuare a creare e l'ho detto a chi mi vuole designer per forza: se non si accende, io non riesco proprio a pensarci».

Fabiana Tinaglia

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