Titolo di studio riconosciuto
Ma dopo 3 anni. E il lavoro è perso

Licenziata perché il titolo di studio non sarebbe stato idoneo al lavoro, dopo tre anni di calvario ha viste riconosciute le sue ragioni. Ma è senza lavoro comunque.

Tutto è accaduto dopo 7 anni di lavoro nella stessa azienda e nella stessa mansione. Poi sono seguiti tre anni, perduti tra scartoffie e rimpianti. Alla fine è arrivata la lettera che riconosce il titolo di studio.

La storia è quella di Pilar Mayolas Taboada, una donna di origine spagnola, ormai italiana, da anni residente in provincia di Bergamo. Tre anni fa, una ispezione dell’Asl in un asilo nido del comune di Bergamo trovava tra i documenti della cooperativa che gestiva il servizio il titolo di studio che Pilar aveva conseguito in Spagna, circa 40 anni fa, di educatrice per l’infanzia. Con questo titolo, Pilar, svolgeva la sua mansione in Italia da circa 10 anni; con questo titolo, era stata assunta 7 anni prima dalla stessa cooperativa.

«Nessuno mi aveva mai parlato di inadeguatezza del titolo, e comunque, subito dopo l’ispezione, ho assicurato che avrei richiesto l’equipollenza del diploma, ma l’Asl non ha voluto sentire ragioni, e la cooperativa ha deciso di sospendermi dal servizio».

«Non si contesta l’applicazione di una legge – sostiene Mimma Pelleriti, responsabile delle politiche migratorie nello staff di segreteria alla CISL -, l’Asl ha fatto il suo lavoro. La domanda è: la cooperativa poteva accettare un percorso diverso? Per la Cisl sì».

Pilar si è rivolta alla Cisl, alla Fisascat e all’Anolf, dove ha incontrato Mimma Pelleriti che su questa storia ha investito molto del suo tempo. «Abbiamo fatto partire le pratiche per l’equipollenza, e chiesto alla cooperativa di attendere la risposta del Ministero della Salute, – racconta Pelleriti, -, un atteggiamento che ritenevamo dovuto nei confronti di una dipendente che per sette anni ha dato il suo contributo; inoltre avevamo individuato il percorso che avrebbe dato il riconoscimento del titolo. Nonostante i nostri sforzi, però, la cooperativa non ha voluto sentire ragioni. Così, anche perché lo stress si stava accumulando, Pilar ha deciso di non impugnare il licenziamento e di procedere alla conciliazione: è stata in parte “ricompensata” economicamente, ma è chiaro che questo capitolo è stato chiuso molto amaramente».

«Mi sono sentita disconosciuta – ricorda Pilar - eppure quella cooperativa mi aveva affidato anche incarichi di responsabilità. Per la mia madrelingua, ho tessuto io i rapporti con la comunità sudamericana, che negli ultimi tempi è stata quella più numerosa nel nido».

I mesi successivi sono stati un continuo viavai tra la Spagna e i ministeri a Roma. Nei giorni scorsi, però, la storia ha dato la svolta che ci si attendeva: è arrivato il decreto di riconoscimento dell’equipollenza del titolo: in pratica Pilar può lavorare con i bambini dell’asilo nido. «Sono stati tre anni di inferno, di disagio, di dignità calpestata – dice oggi Pilar; alla mia età non sarà facile rientrare al lavoro».

«È stata recuperata la storia, in un periodo difficile per le storie umane – conclude Mimma Pelleriti - . Adesso serve che le istituzioni che possono, riconoscano a Pilar il diritto a riacquistare la sua storia in pieno. È per questo che lancio un appello al sindaco di Bergamo, Giorgio Gori, affinché si adoperi a ridare dignità a Pilar attraverso il lavoro».

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