70 anni di crescita
e un limite

Le Costituzioni sono fatte per durare e quella italiana, di cui si festeggiano i 70 anni in questi giorni, è a pieno titolo negli standard delle democrazie europee nate dopo il ’45. Fra quel che ancora unisce quasi tutti gli italiani c’è anche la Carta repubblicana, la cui stesura s’è chiusa a dicembre ’47 per entrare in vigore dal 1° gennaio ’48. E questo perché c’è il riconoscimento di una missione compiuta nell’interesse collettivo, magari senza la piena consapevolezza del ruolo che la «legge delle leggi» può giocare nell’indirizzare e guidare le scelte dei governanti e di noi cittadini. Un compromesso nobile che aveva i presupposti nella lotta al fascismo e la prospettiva di riunire una società lacerata: un lavoro svolto con responsabilità dai padri costituenti, fra i quali i bergamaschi Giuseppe Belotti, Antonio Cavalli, Carlo Cremaschi e Rodolfo Vicentini.

La Costituzione, nella sua grandezza di principi e nei limiti di alcune soluzioni, va collocata nel suo contesto: un’Italia e un mondo che non ci sono più, a partire dai partiti di massa e dalle famiglie politiche di allora (democristiani, comunisti, socialisti, laico-liberali), i principali protagonisti di quella svolta radicale. Un nuovo assetto anche rispetto al costituzionalismo liberale, la nascita di una forma di Stato del tutto nuova. Dal principio democratico della sovranità popolare a quello personalista, con la configurazione dei diritti fondamentali come diritti della persona nella sua totalità. Dal principio lavorista a quello dell’uguaglianza non solo formale ma sostanziale. Nelle Costituzioni democratiche di cui parliamo è contenuto il principio d’indivisibilità dei diritti fondamentali, civili, politici e sociali. Al centro c’è la persona umana, un qualcosa di più che tiene conto delle effettive condizioni economiche e sociali che concorrono a determinarne lo sviluppo. Si lede questo principio non solo trattando diversamente gli uguali, ma anche trattando in modo uguale chi oggettivamente ha diverse posizioni sociali, economiche e culturali.

La Costituzione, sul piano dei diritti, ha saputo guardare lontano, consentendo a ciascuna parte politica (si pensi al ruolo dei cattolici) di sentire come propria la Carta e di ritrovarvi le proprie ispirazioni ideali.

L’ordinamento della Repubblica è figlio comunque del suo tempo, una sorta di camicia di forza, dall’incipiente Guerra fredda al duro conflitto ideologico fra Dc e Pci, dove allora l’alternativa non era semplicemente di governo ma di sistema come si vedrà meglio nelle elezioni del ’48.

Gli stessi comunisti e socialisti erano stati esclusi dal governo De Gasperi nel maggio ’47, cioè nel pieno dei lavori della Costituente: eppure, alla fine, la mediazione è stata possibile. Nel redigere la seconda parte, quella dell’ordinamento della Repubblica, i costituenti hanno scelto la forma parlamentare senza elementi di razionalizzazione. L’accento era più sul Parlamento che non sul governo e legittimamente vigeva il «complesso del tiranno».

In quell’Italia la priorità andava al pluralismo e alla rappresentanza, ad un assetto per garantire le parti in conflitto piuttosto che la competizione e il ricambio. Il vincitore non prendeva tutto. Una democrazia del proporzionale, dove ciascun partito era il titolare di pezzi di società, con alternanze di governo ma non con alternative politiche. Il sistema ha retto per tre decenni e da allora la Grande riforma entra ed esce dall’agenda e sappiamo com’è finito il referendum di un anno fa. La Costituzione, peraltro non completamente attuata, non è un monumento intoccabile, ma va maneggiata con cura e con il consenso. Oggi però il tema mai concluso è quello di una democrazia efficiente e capace di decidere, di trovare la medicina per le malattie che l’affliggono. La partita dell’aggiornamento resta aperta proprio per il rispetto dovuto alla Costituzione, che deve vivere in un altro mondo che corre veloce.

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